"...subito comprai due cavalli, di cui uno d'Andalusia della razza dei certosini di Xerez, stupendo animale, castagno d'oro; l'altro un hacha cordovese, più piccolo, ma eccellente, e spiritosissimo."

(Vittorio Alfieri, La Vita scritta da esso - 1790, 1803)

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Naturalmente nessuna analogia fra me e Vittorio Alfieri. Riporto le sue parole perché mi sarebbe piaciuto vivere in Andalusia quando ci venne lui.

mercoledì 4 agosto 2010

COSE DI SPAGNA E D'ITALIA - Un bel libro: “Berlusconi passato alla storia” di Antonio Gibelli

Ho letto con grande piacere il libro,  "Berlusconi passato alla storia", Donzelli 2010, dello storico Antonio Gibelli: naturalmente con un piacere non privo di tristezza. Mi pare che per la serenità con cui viene raccontata l'epoca presente, per il relativo distacco di storico – l'intenzione di Gibelli è stata, pare, quella di scrivere una lezione di storia sull'epoca berlusconiana, quasi facendo un provvidenziale e liberatorio salto in un futuro libero dall'incubo -, per la grande limpidezza che si accompagna felicemente con la complessità del discorso, questo agile testo potrebbe diventare, paradossalmente, uno strumento di intervento politico serio e analitico. Certo, a patto che la Donzelli ne faccia un'edizione economica e trovi il modo di diffonderlo, cosa che l'aristocratica casa editrice non farà mai. Non se ne può più – è solo una mia opinione, superfluo persino precisarlo – dell'attitudine a ridere e a divertirsi un poco malignamente, un poco amaramente, un poco vittimisticamente, troppo spesso anche a sinistra, per le gesta di questo squallido premier e di quelli che gli stanno intorno. L'agile libro di Gibelli sarebbe, fra l'altro, un'efficace cura a questa malattia.

Uno degli aspetti del libro che mi hanno avvinto sta nell'evidenziazione del robusto filo di continuità - non solo, come spesso abbiamo letto altrove, di illegalità e favori, ma soprattutto relativo alla cultura politica – fra craxismo e berlusconismo, considerati nel loro quotidiano manifestarsi, e non solo nei patti diabolici; pur se poi nella sua scesa in campo l'attuale premier - che cerco di nominare il meno possibile - si è avvalso alla grande di Tangentopoli e dell'antipolitica.

Una breve digressione: negli stessi anni successivi alla Tangentopoli italiana, anche i socialisti spagnoli furono accusati di gravi atti di corruzione e di malversazione delle finanze pubbliche, e nel 1996 l'elettorato li punì eleggendo José María Aznar, del Partido Popular Español, più a destra dell'attuale leader Mariano Rajoy (la sinistra o ciò che le somiglia viene castigata/o dal suo elettorato ben più di quanto avvenga alla destra: questo potrebbe essere anche un motivo di vanto, pur se tale onore si paga caro). Io a quel tempo vivevo a Bergamo, ma da quando ho cominciato a frequentare la Spagna, mi sono spesso domandata se negli anni del castigo dei socialisti spagnoli ci fosse qui un'atmosfera arroventata e forcaiola simile a quella che si respirava in Italia. Credo di no, credo che l'elettorato abbia punito i socialisti spagnoli senza mettere in scena l'immenso spettacolo-orgia che poi, in forme diverse, si è prolungato per quasi un ventennio e non è ancora finito. E che si è accompagnato, prima con Craxi, poi con quel che è seguito a Craxi, alla morte del discorso politico e civile: del discorso fatto di parole e di argomentazioni.

Ritornando al craxismo, Gibelli mette efficacemente in evidenza, fra l'altro, l'uso smodato dei simboli antichi e nuovi, il “ricorso a una politica spettacolare cui oggi ci siamo abbondantemente assuefatti, ma che allora era agli albori” (pag. 19). È un discorso che mi piace: molti dei simboli del passato (certo non tutti) nacquero anche per unire masse di persone analfabete, o poco alfabetizzate, e nacquero in tempi in cui l'immagine era un lusso. L'indigestione di simboli che oggi sostituiscono la parola, da chiunque venga promossa, è per me un fenomeno reazionario. Se io fossi un personaggio politico, cercherei in tutti i modi di eliminare persino le metafore dal mio discorso, e di rendere limpidi più che sia possibile i concetti fatti di parole. Bersani, oggi – ma non solo lui – è una vittima delle sue stesse metafore.

Ho comunque qualche piccola obiezione da portare a questo bel libro di Gibelli: non, naturalmente, dal versante della ricerca storica (non sono purtroppo professore di storia), ma da quello dell'esperienza e di una passione politica che sento tuttora.
Una prima obiezione, la principale. Mi sembra che la trattazione del fenomeno Lega sia un poco carente e spiego in qual senso.
Gibelli parla di origini sotterranee e antiche della xenofobia in Italia, e in specifico nelle zone dove è oggi forte la Lega: soprattutto, anzi quasi esclusivamente, nel capitolo “Leghismo: il carnevale xenofobo” (pag. 49 e sgg.). Però, a mio parere, il fenomeno leghista è raccontato da lui come estraneo alle forze progressiste: non lo dice esplicitamente, ma tale estraneità emerge dalla trattazione. E io non sono d'accordo.
Faccio riferimento, per spiegare il mio disaccordo, a esempi-ricordi tratti dal mio vissuto e a qualche lettura.

Primo esempio-ricordo. Ho abitato a Bergamo fino a quattro anni fa, e in una tarda mattinata degli anni novanta, tornando con il treno da Milano, mi imbattei nell'ultimo atto di una manifestazione della Lega. Nella stazione c'erano partecipanti che aspettavano i treni che li avrebbero portati alle loro case, e tutto il centro della città era percorso da gruppetti di persone con le bandiere ripiegate e i fazzoletti verdi al collo. Ne ebbi una fortissima impressione: padri barbuti, madri giovani e belle, qualche nonna, bambini di varie età, anche piccolissimi, portati a spalle negli zaini. Mi parve per un momento di trovarmi in certe manifestazioni dei primi anni settanta, insieme all'allora mio giovane compagno e ai miei figli. Se le bandiere leghiste e i molti simboli verdi fossero stati sostituiti per opera di un mago con bandiere rosse e simboli della sinistra del tempo, sarei ripiombata traumaticamente in situazioni di un passato già remoto, di vent'anni prima.
Secondo esempio-ricordo. Alla fine degli anni novanta, andavo a ficcare il naso in riunioni leghiste e poi scrivevo per un giornaletto locale qualche articolo su quel che combinavano e dicevano quei signori. Ricordo in particolare un'assemblea, in una sala pubblica, con ampia partecipazione. I leghisti locali presentavano, fra l'altro, il programma per la loro “scuola padana” (a Varese, a Caravaggio, in provincia di Vicenza e in provincia di Treviso: tutti questi tentativi avrebbero avuto, per ovvie ragioni economiche e di credibilità, breve vita). Il programma era: scuola di comunità, recupero ossessivo delle “radici”, insegnanti motivati capaci di “capire i ragazzi”, lotta alla selezione, doposcuola esteso, scuola a tempo lungo con potenziamento dell'espressività (musica ecc.), valorizzazione della “cultura materiale”, dell'esperienza, del “concreto”, ecc.. Restai colpita anche allora per la migrazione di tanti motivi della sinistra e anche della scuola di Barbiana – naturalmente deformati – nella ideologia leghista.
Terzo esempio-ricordo. Sempre alla fine degli anni novanta facevo parte del direttivo locale della Cgil scuola. Ci fu un congresso e insieme ad altri insegnanti di varia origine geografica richiesi di mettere all'ordine del giorno una mozione su scuola e Lega, ovviamente radicalmente critica nei confronti di questo movimento. Fu piazzata, con nostro grave disappunto, all'ultimo punto all'odg.
Quarto esempio-ricordo. Erano gli anni in cui Chicco Testa, ma non solo lui, affermavano che la Lega era essenzialmente un movimento di protesta (dopo un'arrabbiatura che mi presi in occasione di una riunione con la sua presenza, restituii la tessera dei Ds). Un’immagine frequentemente avvalorata nell'area della sinistra moderata – per fortuna non da tutti - è stata negli anni quella di un movimento all’inizio in gran parte “sano”, capace di convogliare la protesta contro aspetti insopportabili della gestione delle istituzioni e delle finanze dello stato, poi sempre più degenere e in preda alla deriva razzista e secessionista.

Quanto poi alla sinistra “più a sinistra”, spesso prigioniera di visioni localiste e insieme radicali nel senso di estremiste... beh, mi limito a ricordare alcuni articoli di Paolo Rumiz e pure ciò che questo giornalista dice nel suo bel libro "La secessione leggera, del 1998: c'erano allora non poche contaminazioni tra localismi abbastanza populistici, arrabbiati, di diverso orientamento politico (altra piccola digressione: in Spagna, in Andalusia, pur se il contesto è molto diverso da quello italiano, riconosco nella sinistra che frequento oggi qualche atteggiamento localista che mi fa davvero paura).

Potrei continuare citando molte altre esperienze e momenti e letture, ma credo basti così.

Non penso affatto sciocchezze del tipo: erano/sono tutti uguali. Però credo che le suggestioni leghiste siano nate anche da motivi, e qualche volta persino da errori, della sinistra delle diverse sfumature, e siano penetrate/ si siano perpetuate – quest'ultima non è una constatazione solo mia – anche nelle diverse anime della sinistra stessa e del sindacato (e non è finita del tutto, tale contaminazione, come è facile accorgersi in questi giorni). Mi pare che manchi nei discorsi che si fanno sul berlusconismo e sul suo “padre”, il craxismo, un ragionamento pacato, ma incisivo e molto analitico, un'indagine persino linguistica, che ricostruisca certi fili di continuità, pur nelle differenze grandi, fra la sinistra non craxiana, la morale immorale cattolica, e i movimenti xenofobi: nel passato e nel presente. Credo che se non matura questa consapevolezza, unita – lo ripeto – al recupero di un'attitudine analitica testarda, non si esce da questo lungo tristissimo dramma italiano e da quest'opposizione confusa e impotente.

Altra obiezione minore al libro di Gibelli. Mi pare che anche sul terrorismo – parlo di quello “rosso” - trasvoli troppo rapidamente. Certo, si tratta di un dramma che ha quasi completamente preceduto i decenni che sono al centro della trattazione. Però forse un poco di approfondimento sul peso che gli anni di piombo hanno avuto dala seconda metà degli anni settanta in poi sarebbe stato utile. Ho letto tempo fa il libro di Sergio Flamigni, "La sfinge delle Brigate Rosse" , che ho già citato in un mio precedente post; e pure l'incredibile, a mio parere tremenda, intervista che Rossana Rossanda e Carla Mosca hanno fatto quindici anni fa a Mario Moretti. Fors'anche il craxismo era legato non da un solo ovvio filo a quanto era accaduto tra la seconda metà degli anni settanta e i primi ottanta, agli anni di piombo. Legato in quanto, certamente, gli anni di piombo ne favorirono lo sviluppo; ma fors'anche – e lo dico con qualche difficoltà, perché non mi piace in genere la dietrologia – connesso con il terrorismo “rosso”, o con parte di esso, da vincoli sotterranei che tuttora forse pochi conoscono.

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