"...subito comprai due cavalli, di cui uno d'Andalusia della razza dei certosini di Xerez, stupendo animale, castagno d'oro; l'altro un hacha cordovese, più piccolo, ma eccellente, e spiritosissimo."

(Vittorio Alfieri, La Vita scritta da esso - 1790, 1803)

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Naturalmente nessuna analogia fra me e Vittorio Alfieri. Riporto le sue parole perché mi sarebbe piaciuto vivere in Andalusia quando ci venne lui.

sabato 28 agosto 2010

COSE DI SPAGNA, D'ITALIA E DEL MAROCCO – Incontri nel Nord del Marocco 8



AL MARE E TRA TETOUAN E CEUTA

Andiamo in autobus al mare, con Malika e Leila, a casa della figlia di Leila, la maestra. Lei e il marito hanno preso una casa in affitto al mare, a Martil, un piccolo centro sul Mediterraneo. Resteremo a dormire là per una notte. Le viuzze interne del paesino sono molto dissestate, mentre la strada della passeggiata lungo la spiaggia è abbastanza nuova, piena di bar, locali simili a quelli dell’Andalusia, dove si possono mangiare tante cose spendendo poco. Spicca l’insegna di una gelateria: BELLA ITALIA.

Malika continua a ripetermi che qualche decennio fa lì non c’erano tutte quelle case disordinate, c’erano ville e villini e tanto verde, tanti alberi.
La spiaggia dà su uno specchio d’acqua molto calmo: è il Mar Mediterraneo, che ora mi sembra insopportabilmente fermo.
Spiaggia affollata, ma non c’è traccia di turisti. Le sole che usino il costume da bagno, spesso il due pezzi, sono le ragazzine fino a quindici anni. Le altre usano per bagnarsi o jellaba molto leggere oppure pantaloni al ginocchio; considerano più lecito alleggerirsi nella parte superiore, dove, sui pantaloni, sbucano i corpini di normali costumi da bagno interi.
C’è una cosa che mi ricorda i miei tredici anni. A quel tempo, anche in Italia, in Puglia, solo le ragazze un po’ spregiudicate usavano costumi a due pezzi, e certo non ridotti come quelli attuali. Sulle mutande erano spesso applicate gonnelline che non nascondevano nulla più di quello che nascondeva il pezzo che stava sotto, ma erano una specie di omaggio simbolico al pudore. Anche su questa spiaggia alcune ragazzine portavano, attaccate alle mutande del due pezzi, una leggera e cortissima gonnellina. Proprio come nei nostri anni cinquanta. Mi è parso in questi giorni di rivivere tante piccole esperienze e ricordi dei miei anni cinquanta.

La sera andiamo a passeggiare e a mangiare fuori. Camminiamo a lungo, c’è anche una libreria. Malika mi dice che forse vendono libri di poeti di Al-Ándalus, e davvero ci sono: libri molto ornati, con copertine dure. Le dico che non posso scegliere questi libri a mezzanotte, e che ho lasciato a casa la lista dei poeti che mi interessavano. Però entro lo stesso nella libreria: compro un libretto che dà i primi rudimenti di italiano a quelli che parlano in arabo. Lo sfoglio incuriosita: ci sono molte cose curiose, certamente una marea di errori in italiano. Poi vedo su uno scaffale il Mein Kampf di Hitler tradotto in arabo. La stramaledizione delle memorie divise, ignoranti e crudeli. Se parlassi alle mie amiche marocchine di Hitler, forse non saprebbero quasi chi è.

Ritorniamo al pomeriggio a Tetouan. L’indomani devo partire, anche se fanno qualche tentativo per trattenermi. In autobus dico a Malika: “Stasera si resta in casa, vero? Siamo un po’ stanche, no?” E lei risponde di sì. Torniamo nella casina della matriarca. Però, verso le undici di sera, mentre sto pensando che tra poco mi farò la cuccia su un divano, Khadigia viene e mi dice: “Abbiamo pensato di farti una sorpresa. Ti piacerà. Ti portiamo in un bel posto. Ma torniamo a casa presto, non ti preoccupare.” Voglio bene a tutte loro, vado a prepararmi per uscire.
Saliamo sulla macchina di uno dei nipoti, quello fidanzato con la ragazza francese-libanese- armena, che gli siede accanto, davanti. Siamo in quattro dietro: Malika, Khadigia, Fatima e io. Insistono perché io mi appoggi sullo schienale, mentre quella che mi sta vicino si accartoccia in avanti, restando seduta sul bordo del sedile. Corriamo fuori città, per una strada a più corsie, nuova, che da Tetouan porta a Ceuta.
Passiamo davanti a un palazzo mille e una notte: tante cupole e cupolette a cipolla, azzurre e d’argento. Questo è il posto più bello da affittare per feste di matrimonio, mi dicono. Un’intera giornata, da una mattina a quella successiva, costa 3000 euro. Era un ristorante, l’ha comprato un signore, che l’ha restaurato e ingrandito. Ora guadagna davvero molto. La figlia di Fatima, la ragazza-dea sposata con il bel professore berbero, fece la festa di nozze qui. Mi chiedo, tante fatiche, tanto lavoro da emigranti, per pagare una festa di nozze? Ma è così, e in passato era ancor più così anche in Italia. E lo è pure, tuttora, nella socialista Andalusia, da quel che so: non sono pochi quelli che fanno i debiti per la festa di nozze, ma anche per prendere in affitto una casetta di tela alla fiera di Siviglia, dove poter invitare gli amici.
Dopo un po’ compaiono ai bordi dell’autostrada palme in fila, con i fusti ricoperti da reticoli di piccole luci azzurre. Mi dicono i miei amici: “Vedi, tutto questo, la strada e il resto, l’ha fatto il re. Ma non con i soldi dello stato, con il suo patrimonio personale.” Mi dico che noi italiani non possiamo proprio meravigliarci del fatto che grandi opere pubbliche siano state fatte da un re con i suoi soldi, che un re abbia tanti soldi. Noi ci siamo fatti una specie di re, abbiamo fatto re un uomo vecchio e brutto, con il nostro voto: ma il nostro re non investe certamente le sue ricchezze in opere pubbliche né cerca di fare avanzare, pur se a zig-zag, qualcosa che assomiglia alla democrazia.
Il re Mohamed VI fa dunque queste strade belle, modernissime, le abbellisce con luci. C’è una grande ansia di modernizzazione, da parte dei marocchini che conosco: mi chiedo se non sia persino più forte dell’attaccamento alle tradizioni, al culto della Grande Famiglia.

Giungiamo a M’diq, un paese di pescatori ben curato, con case e alberghi nuovi, le strade affollatissime, Anche qui c’è stato l’intervento diretto del re. Le palme ne sono forse un segno: ancora ornate di lucine, ma queste palme non hanno i fusti ricoperti di reticoli luminosi, hanno stelline di lampadine azzurre sulle ciambelle di rami tagliati che si trovano alla base dei nuovi rami. C’è una grande piazza, tutta messa a nuovo, dove, mi dicono, vanno ad esibirsi i più famosi cantanti e gruppi del paese. Ci sediamo a rimangiare: ho fatto più che uno spuntino a casa della matriarca e mi sottraggo il più possibile. Ci raggiungono altri della Grande Famiglia, sono molti, si devono unire più tavoli sulla piazzetta per poterci stare tutti. Portano con sé bambini piccolissimi che un po’ dormono, un po’ si svegliano e mangiano. Dopo la ri-cena si va sulla terrazza di un ristorante che sta chiudendo i battenti: lì si mangia un buon gelato in grandi coppe, come in Italia, e le donne del gruppo convincono il cameriere a darcelo anche se è tardi. Di fronte c’è una conca di mare, chiusa: sulla riva di fronte si vedono i lumicini delle case lontane. Si è fatto tardi, tutto tace. Mi chiedono: “Non è bellissimo?” Ne convengo. Una mamma tira fuori dal passeggino il bambino che si sveglia, lo mette a sedere sul tavolino, e gli dà qualche cucchiaino di gelato. Ce ne sono tre, di bambini piccoli, nella comitiva, nessuno piange, tutti mangiano, rimangiano e si rimettono a dormire nel rispettivo passeggino. Nessuno piange, sono stregati.

Mi chiedo se quest’uso della notte, anche per i bambini, venga dalla tradizione o dalla modernità. Forse giunge dal Ramadam, che non è solo un periodo di purificazione e di digiuno, ma anche di grandi feste notturne: si può, anzi si deve mangiare, e cibi il più possibile abbondanti e prelibati, quando scende la sera: si può rompere il digiuno nel momento in cui non è più possibile distinguere, con la luce della natura, se un filo di lana è nero o bianco. Ora non si fa la prova del filo, ma è il muezzin che annuncia l’inizio della sera. Però può anche esserci un’altra spiegazione a questa vita notturna in cui sono coinvolti anche i neonati: potrebbe derivare dalle ansie di modernità, dalla voglia di quella vita notturna che in Spagna è così consueta.

Ritorniamo a Tetouan che sono passate le quattro: io ho bisogno delle mie medicine che non ho pensato di portare con me, il giovane nipote delle amiche ferma la macchina presso la casa della matriarca e Khadigia va a prendere piano piano, senza svegliare nessuno- ci devono essere delle persone sdraiate sui divani - il mio zainetto. Poi andiamo tutte a dormire a casa di Fatima.

L’indomani parto. Compro un po’ di posti al taxista, in modo che non inzeppi l’auto e possiamo viaggiare più comodamente, e mi accompagnano a Tangeri Khadigia e Malika: sono contente perché possono andare a trovare una vecchia zia che sta male e non è potuta venire ai festeggiamenti. Mi accompagnano fino al punto di controllo dei passaporti, e al momento degli abbracci e dei baci contenti e anche un poco laceranti mi consegnano un pacchetto che avevo visto passare dalle mani dell’una a quelle dell’altra: “Sono i nostri dolci. Per tuo figlio (sanno che arriverà presto). Mettili in freezer e quando lui arriva, li tiri fuori, saranno freschi come fossero fatti nello stesso giorno.” Sono graziose, penso, sono affettuose, della care amiche.

Vedo dal finestrino della nave il Rif che si allontana. In quaranta minuti sono in terra di Spagna. Quando sbarco nella bellissima Tarifa, mentre un taxi mi porta alla stazione degli autobus, attraversando la campagna di vero smeraldo, mi dico: “Sono nel mio paese”. Un sussulto e mi ridico: “Ma che razza di pensieri sono questi? Anche tu ora ti metti a costruirti una patria? E che te ne fai?”

1 commento:

  1. bellissimo...mi sono commossa un pò, come fossi stata lì con te.

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