"...subito comprai due cavalli, di cui uno d'Andalusia della razza dei certosini di Xerez, stupendo animale, castagno d'oro; l'altro un hacha cordovese, più piccolo, ma eccellente, e spiritosissimo."

(Vittorio Alfieri, La Vita scritta da esso - 1790, 1803)

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Naturalmente nessuna analogia fra me e Vittorio Alfieri. Riporto le sue parole perché mi sarebbe piaciuto vivere in Andalusia quando ci venne lui.

venerdì 30 aprile 2010

COSE DI SPAGNA E D'ITALIA - TESTAMENTO BIOLOGICO, DECLARACIÓN DE VOLUNTAD VITAL ANTICIPADA

Ieri sono andata a Cadice a registrare la mia Declaración de voluntad anticipada e anche per questo ho deciso di scrivere un aggiornamento a un mio articolo di un anno fa sulla questione dei testamenti biologici in Spagna e in Italia.

Quest'anno, in marzo, nel Parlamento dell'Andalusia, è stata approvata con voto unanime, la "Ley de muerte digna" , che garantisce alle persone, anche a quelle che non hanno fatto il testamento biologico, di poter morire con dignità, senza dover subire per forza assurdi e crudeli accanimenti "terapeutici". La Chiesa cattolica, in Spagna, come ho già detto un anno fa, non fa particolare opposizione a questa legge, che con molta probabilità verrà estesa a tutto il paese. Ha altre cose a cui pensare: le nuove norme in materia d'aborto, la continua querelle sulla famiglia “normale”, contro i matrimoni fra persone dello stesso sesso ecc.. E anche su queste ultime questioni mantiene un atteggiamento molto più cauto di quello che si permette in Italia non solo relativamente a faccende di corpi e di sesso, che, com'è noto, sono le ossessioni ricorrenti delle gerarchie (non so quanto quest'accanimento vischioso, ancora impregnato di miasmi della parte peggiore della Controriforma, influisca a incoraggiare una doppiezza morale, una sorta di crudeltà non esente da lascivia, insita in tanta parte dell'istituzione).

I due atteggiamenti della Chiesa cattolica, in Italia e in Spagna, non devono stupire. Questa chiesa, come avviene a un organismo vivente capace di trasformarsi e di adattarsi ai cambi ambientali, ha saputo assumere nei secoli tante facce: ha saputo mostrare un volto tollerante e contemporaneamente, in altre situazioni, partire all'attacco con fanatismo; ha ereditato il difficile monoteismo di matrice ebraica e ha concesso una sorta di politeismo mascherato, adatto alle anime semplici (l'Olimpo dei santi, ad esempio, ma non solo); ha accettato, quando non incoraggiato, le superstizioni, anche quelle di massa, e ha espresso, al tempo stesso, posizioni dottrinarie alte e sofisticate, di élite; ha nel tempo declinato nuovi dogmi, aggiungendoli a quello trinitario sancito non certo da Gesù, ma dal lontano Concilio di Nicea del 325; ha all'occorrenza cancellato o relativizzato “verità” predicate per secoli (ora, ad esempio, pare che le anime dei bambini morti senza battesimo non debbano più, necessariamente, finire nel limbo, come era stato detto per secoli ai fedeli, per costringerli all'affiliazione precoce dei neonati al cattolicesimo, che evidentemente ora non funziona più come nel passato); ha dato incondizionato appoggio a ricchi, a potenti e a prepotenti, (si sono assunte questo compito soprattutto le gerarchie) e ha contemporaneamente offerto aiuto ai poveri della terra (se ne sono fatti carico soprattutto preti con sensibilità sociale, anche pagando con la vita, e molte organizzazioni cristiane di base). E si potrebbe continuare. Mi sembra illusorio pensare che questa Chiesa possa cambiare, rifondarsi su ideali di purezza: alla sua capacità metamorfica, alla sua abilità illimitata di essere una e multiforme, anche nell'ambito dottrinario e morale, sono legate la sua sopravvivenza e il suo immenso potere. Però ammetto che questa speranza riguarda soprattutto i fedeli, non persone come me.
Tuttavia, se la Chiesa parla di morale laica, è giusto che i laici e i non credenti (e non per dispetto o ritorsione) parlino della morale delle gerarchie cattoliche, che tanto peso hanno nella vita di tutti, soprattutto, ma non solo, in Italia.

giovedì 29 aprile 2010

ARABISTI E ARABESCHI 7 – POESIA PREISLAMICA 3 - Il poeta bandito e il poeta cavaliere

ASH-SHANFARA
Ci sono stati tramandati di questo poeta alcuni frammenti e due composizioni ampie: la più famosa è questo “Carme in rima lām degli Arabi". C'è il dubbio che non sia autentica, che sia stata scritta da altra persona e attribuita a questo poeta due secoli dopo l'avvento dell'Islam, falsificazione, pare, abbastanza normale a quel tempo. È comunque un canto interessante, racconta la condizione di un uomo espulso (l'espulsione dalla tribù poteva essere una punizione per l'individuo che avesse trasgredito alle leggi interne) o allontanatosi per sua scelta . Il titolo assegnato al canto è dei traduttori.

Il canto del bandito

Uomini della mia tribù, fate drizzare i petti delle vostre cavalcature e partite, ché io verso altra gente che non verso voi son più incline.
I necessari preparativi son stati compiuti, e la notte è di luna, le cavalcature sono state bardate e i basti serrati pel viaggio.
Nella terra c'è bene un rifugio che ripari l'uomo generoso dall'offesa, e un ritiro per chi tema l'odio dei nemici.
Per la tua vita, non è angusta la terra, per un uomo che sappia cauto incedere la notte, tra il desiderio e il timore.
A me sono compagni in vostro luogo uno sciacallo dalla marcia veloce, una liscia pantera pezzata, e una iena arrancante dall'irta criniera.
[...]
Io parto al mattino dopo un magro pasto, così come parte un grigio-argenteo sciacallo dai magri fianchi, che passa di deserto in deserto:
incede errando affamato contro vento, calando sui fondovalle in trotterellante corsa,
e quando il cibo lo distoglie da dove prima lo cercava, egli
lancia un appello, e gli rispondono gli smagriti suoi simili; sottili come falce lunare, bianco-grigi nei volti, vibranti come frecce agitate da un giocatore di « maisir » (1),
o come sciame d'api fatto alzare agitato dalle bacchette di ricerca del miele, piantate dal cercatore che sale sul monte;
dalle ampie bocche spalancate, i cui angoli sembrano fessure di bastoni, digrignando i denti e ostilmente aggressivi.(2)
Ulula allora lo sciacallo e ululano i suoi compagni per il piano deserto, come fossero donne orbate dei figli che fan lamento su un'altura,
e battono insieme in ritirata veloce, tutti alleviando con la pazienza l'angustia latente dell'animo.
Ho familiare la faccia della terra quando la prendo a giaciglio, col ricurvo mio dorso cui rilevano le magre sporgenze delle vertebre,
e adatto a cuscino un braccio scarnito, le cui giunture sembrano
dadi eretti, gettati da un giocatore.
Io sono uno perseguitato da delitti che si giocano a « maisir » la sua vita, a chi di loro per primo essa sia destinata qual vittima.
Dormono essi, quando egli dorme, con occhi svegli un fugace sonno, affrettandosi a suo danno.
Io sono il compagno di affanni che non cessano dal visitarlo, con la frequenza della quartana e ancora più gravi.
Quando arrivano, io li allontano, ma essi ritornano venendo dal basso e dall'alto.
E se tu mi vedi, o donna, abbrustolito come struzzo, all'erta, scalzo, senza calzati,
sappi che io son l'uomo della pazienza, che rivesto la mia armatura su un cuore qual di bastardo di
iena, e di fermezza mi calzo.
[...]
Quante sinistre notti, in cui l'arco spezzato e arso serve a riscaldare il suo padrone, assieme alle asticciole che gli facevan da frecce,
io sono uscito dall'avventura, tra l'oscurità e la pioggerella, battente, avendo a compagni disperata fame e congelamento, paura e brivido di terrore,
e ho vedovato donne, e resi orfani bimbi, e sono tornato così come ero partito nel pieno tenebrore notturno.
[…]








martedì 27 aprile 2010

RAVAL by Giuliano Belotti

domenica 25 aprile 2010

ARABISTI E ARABESCHI 6 – POESIA PREISLAMICA 2 - Un re vagabondo, un guerriero nemico e un poeta cristiano



UN RE POETA, IMRU L’QUAIS
Imru l’Quais (VI secolo) apparteneva a un nobile clan, i Kinda. Suo padre, un re locale che aveva cercato di unificare una parte delle genti arabe, era stato ucciso da membri di tribù nemiche e il poeta, che aveva condotto una giovinezza dissoluta e girovaga, e fu chiamato anche “re errabondo”, era giunto fino a Bisanzio per chiedere aiuto all’imperatore Giustiniano: i bizantini e i sassanidi si contendevano a quel tempo l'influenza sulla regione. La leggenda dice che fu lo stesso imperatore a fare uccidere Imru l’Quais, che aveva cercato di sedurgli la figlia. Si narra addirittura che l'imperatore gli avrebbe mandato una tunica avvelenata per ammazzarlo e poi, pentito, gli avrebbe fatto costruire un mausoleo. Venne ricordato perciò anche con il soprannome “l'ulceroso”. Per quel che si sa, leggende a parte, morì davvero nel viaggio.
Ci informa Francesco Gabrieli: “Un detto attribuito al Profeta, poco amico dei poeti, dichiara Imru l'Qais loro duce sulla via dell’inferno e conferma con questo primato a rovescio il primato cronologico e artistico che ha questa singolare figura, la prima storicamente afferrabile dell’antica letteratura araba.” (La letteratura araba, Sansoni Accademia 1967). Imru l'Qais è il più famoso tra i poeti che scrissero mu'allaqāt.

La ragazza della tribù nemica

Di seguito, un passo della sua mu'allaqā, in cui Imru l’Quais racconta di aver sedotto la ragazza di una tribù nemica:

Superai, giungendo fino a lei, le sue guardie e suoi parenti,
desiderosi, se avessero potuto darmela nel silenzio, della mia morte,
mentre le Pleiadi si mostravano nel cielo
come i segmenti di una collana di gemme.
Io arrivavo, e lei già si era tolta le vesti per andare a dormire,
aveva indosso solo una tunica leggera. Era dentro la tenda
e diceva: “Giuro che non hai scuse.
E non credo che la tua follia ti abbandoni.”(1)
Uscimmo, e lei agitava dietro di noi,
sulle nostre orme, il lungo strascico di una tunica ricamata.(2)
E quando superammo il limite dell'accampamento e ci accolse
una limpida valle tra colli e pietraie,
mi avvicinai il suo capo tenendola per le trecce,
la vita sottile e delicata, ben torniti i polsi,
il seno levigato come specchio,
primizia candida, con la lucentezza del grano,
percorsa da acque di cristallo proibite.
Mostrava, sottraendosi un fresco volto,
con lo sguardo di una femmina di Wağrah con il piccolo;(3)
che collo di gazzella, di perfette proporzioni e ben tornito!
Una folta chioma nera le adornava le spalle, fitta come un pendulo grappolo di palma.
Le sue trecce erano raccolte in alto, ora strette, ora lasciate sciolte, scendevano.
Il fianco flessuoso come stelo di una pianta carica d'acqua e docile.
Frammenti di muschio cospargevano il giaciglio su cui ancora riposava, a mezzogiorno,
discinta, fino a tardi nel sonno, pigra, smemorata,
e porgeva le sue morbide dita tenere
come larve di Zuby o duttili  fibre di stuzzicadenti,(4)
Questa ragazza illumina le ombre della sera
quale lampada del solitario monaco nella notte.

(traduzione mia da Corriente Córdoba, Monferrer Sala, Las diez Mu'allaqat, cit.)


Qualche rapida necessaria spiegazione: 1- le parole che la ragazza rivolge al poeta: “Giuro che non hai scuse./E non credo che la tua follia ti abbandoni.” sono piuttosto oscure e ambigue: un rimprovero all'uomo che si è introdotto nella sua tenda? Anche il traduttore nella nota non giunge a una spiegazione univoca; 2 - la ragazza spazza la terra con lo strascico della sua tunica per cancellare le orme del passaggio suo e dell'amante; 3- “una femmina di Wağrah con il piccolo” è una mucca con il vitello: questa e le successive similitudini, preziose per un beduino del deserto di quel tempo, a noi paiono strane; 4- “dita tenere/come larve di Zuby o tenere fibre di stuzzicadenti”: anche queste similitudini appaiono strane a noi, ma non ai contemporanei di Imru-l-Quais.

In un altro passo della mu'allaqā, Imru-l-Quais, per compiacere alcune donzelle, ammazza la sua cammella e gliela dà da mangiare: non ci ricorda un po', questo fatto, la storia di Federigo degli Alberighi, che ammazza il suo falcone per darlo da mangiare all'amatissima monna Giovanna?

venerdì 23 aprile 2010

ARABISTI E ARABESCHI 5 – POESIA PREISLAMICA 1 – LE MU'ALLAQĀT

L'età preislamica in arabo prende il nome di jiahiliyyah, età dell’ignoranza, della barbarie. Come spiega Jaime Sánchez Ratia, l'età “della sproporzione fra offesa e rappresaglia”.
Il secolo precedente l’avvento di Maometto fu notevolissimo per lo sviluppo della poesia araba, la cui maturità e complessità sia tematica sia stilistica stupisce gli studiosi..
Per raccontare aspetti essenziali di questa grande stagione della poesia araba, farò riferimento al libro Le dieci  mu'allaqāt (Hiperión, Madrid 2005), poemetti tra i 50 e i 100 versi, senza dubbio le più importanti composizioni poetiche dell'età che precedette la venuta del Profeta, tradotti dall'arabista spagnolo Federico Corriente Córdoba, in collaborazione con Juan Pedro Monferrer Sala; le mu'allaqāt in traduzione sono precedute da un'importante introduzione sul contesto storico, sulla lingua, sulle forme poetiche, e da note sui singoli autori. E poi ricorrerò anche a una bella antologia di Francesco Gabrieli, Virginia Vacca, Antologia della letteratura araba, Edizioni Accademia, 1976; e alla Letteratura araba di Francesco Gabrieli, Sansoni, Accademia, 1967: Gabrieli fu uno dei maggiori arabisti del nostro passato, e tradusse alcune importanti opere del Medioevo. I due libri che ho appena citato, per quanto ne so, non sono stati recentemente rieditati (li comprai anni fa in un negozio di libri usati), ma li ho visti tuttora indicati in alcune università come testi per gli esami!

La società in cui nasce la poesia preislamica è di beduini nomadi: le famiglie sono riunite in tribù, “il vincolo di sangue, vero o presunto... crea la solidarietà tra i membri della tribù e l'onore e il disonore di ciascun membro si ripercuote inevitabilmente su tutto il gruppo […]. L'obbligo più grave che ricade sul nomade è quello di vendicare il sangue, quando ci sia motivo per ciò [...].In quest'ambiente si definiscono le caratteristiche morali del beduino: crudeltà e violenza, per la difesa del suo unico mezzo di vita e del suo unico possesso, il bestiame; rapina per sottrarlo agli altri, solidarietà nei confronti del suo gruppo, unica garanzia di sopravvivenza per l'individuo in un ambiente spietato; identificazione con la natura, rude ma lirica, come in tutte le steppe in cui la solitudine genera melanconia e intensità nel sentire […]; forte patriarcato in una gerarchia tribale, che garantisce l'unità di comando e di giudizio, e il successo nella lotta per la vita, spesso condotta con armi […]. Persino nelle sue credenze, il nomade è diverso dal contadino sedentario, che si mostra, in fatto di religione, interessato, credulo fino all'idiozia, prende in giro il clero della propria religione, in cui non ha fiducia, però è timoroso per i suoi poderi, e tende sempre a rendere concreti e ad antropomorfizzare i suoi dei che hanno sede nella madre terra che gli dà da vivere e in oggetti che si possono toccare; il nomade, al contrario, è più incline alla metafisica, crede in un Essere soprannaturale, ineffabile e astratto, la cui essenza si connette alle cose materiali solo in senso simbolico, un Essere potente, che conosce quello che è nascosto agli uomini, signore assoluto delle vite e delle fortune, pur se in ultima istanza giusto nei suoi disegni imperscrutabili, in genere disinteressato alla condotta umana, che deve regolarsi non sulla speranza di un premio ultraterreno, ma per rispetto verso se stessi e per la reputazione di se stessi e dei propri discendenti.” (Corriente, Córdoba, Monferrer Sala, op.cit., trad. mia). Ho riportato questi passi, in cui pur non manca qualche venatura positivistica, perché mi sono sembrati suggestivi e utili a entrare in questa poesia e anche, per contrasto, nella successiva stagione. Non ci evocano un po', queste parole, il Canto notturno di un pastore errante per l'Asia di Giacomo Leopardi?

giovedì 22 aprile 2010

COSE DI SPAGNA E D'ITALIA – ANCORA SULL'INTERVENTO DI MIRIAM E POI SU ALTRE VICENDE ITALIANE 3

So che i discorsi che ho ascoltato a Cadice non sono facili da attuare, neppure in Spagna, richiedono un impegno di indagine e di proposte che non è affatto cosa da poco.

Torno al mio paese e al video di Miriam Mafai. Non mi piace neppure che la grande Miriam abbia detto, così, genericamente, che vanno rispettate Patrizia D'Addario o la nota Veronica. Penso che per rispettarle davvero, qualcuno avrebbe dovuto dir loro: “Si rende conto, signora D'Addario, che non è lecito chiedere, attraverso prestazioni sessuali, variazioni a un piano regolatore per interessi personali? Lei poteva farsi pagare quanto voleva, dal tizio, e pure senza pagare le tasse, visto che il suo lavoro non è ancora riconosciuto come tale dallo Stato italiano, ma non aveva il diritto di chiedere una contropartita che avrebbe portato danno alla collettività. Si rende conto inoltre di aver dimostrato disponibilità di accettare una candidatura a elezioni pubbliche attraverso prestazioni sessuali che non sono certo, di per sé, garanzia di capacità politiche e amministrative? Pensava di averle, queste capacità?”. E all'altra: “Che pensa, signora Lario, del fatto che il patrimonio per cui lei ora combatte è frutto di affari loschi del ex-suo marito? E che pensa di ciò che lui ha fatto, non solo con ragazzine, ma anche in rapporto alla società italiana, alle persone disperate, ai giovani senza lavoro, agli stranieri, ai sinti e rom italiani? Che pensa di tutto ciò che quel signore ha combinato a danno del suo paese?” Né l'una né l'altra sono bambine di due anni. E neppure ragazze povere e disperate e ricattate, costrette da qualcuno o dalla fame a battere il marciapiede.

È tragico per il nostro paese che la popolarità del tizio abbia cominciato a discendere quando si è saputo dei suoi lugubri festini, e non perché per anni ha distrutto vite, sforzi e speranze di tanti. Se dovesse cadere totalmente la sua irresponsabile, folle e non allegra fascinazione sugli italiani, speriamo di non dover pagare in modi oggi inimmaginabili il “peccato” (per una volta mi avvalgo di un termine della religione cattolica) che abbiamo compiuto o siamo stati costretti a compiere dalla barbarie che ci circonda e dalla concatenazione maligna degli eventi: quello di dover usare come grimaldello le squallide nottate di un vecchio che se ne infischia delle sue responsabilità istituzionali e dei destini degli altri esseri umani.

lunedì 19 aprile 2010

ARABISTI E ARABESCHI 4 – LA LINGUA E I CONTESTI

Per comprendere non solo l'importanza dei libri di Jaime Sánchez Ratía e di altri orientalisti che si sono staccati e si staccano dalla pigrizia dominante, ma anche la difficoltà di accostarsi a questo immenso patrimonio poetico, che in massima parte è sconosciuto sia a noi europei, sia a buona parte delle popolazioni dei paesi arabi e del Maghreb, bisogna tener conto di alcune caratteristiche della lingua araba, forse note ai più, ma non a tutti.

L'arabo classico, usato tuttora nella maggioranza degli scritti, anche giornalistici, oggi non si parla da nessuna parte. O meglio, viene talvolta usato come lingua sovranazionale fra personalità dei paesi arabi, e anche in ambito religioso, in alcune trasmissioni e notiziari radiofonici e televisivi. Nei paesi arabi e anche nel Maghreb si parlano dialetti che per lo più non vengono scritti (ci sono poche eccezioni su cui non mi soffermo). Perciò una persona che nei paesi arabi o nel Maghreb non sia andata a scuola o non abbia frequentato per motivi religiosi una scuola coranica, non conosce l'arabo classico che, con le sue diverse sfumature e varianti, viene da molti secoli usato solo per scrivere. Si tratta di una lingua antica, ma non morta, essenzialmente sillabica, codificata dal Corano (l'arabo coranico, a differenza di quello degli altri scritti, è tutto vocalizzato!), in parte evolutasi e trasformatasi nel tempo. Chi vive nei paesi arabi, si trova nella situazione in cui ci troveremmo noi che parliamo lingue neolatine, se per leggere e scrivere dovessimo imparare il latino che non è la nostra lingua madre, anche se con quest'ultima, che si usa nel discorso quotidiano, ha molti tratti in comune. In più, il latino che molti di noi hanno studiato è, nelle sue linee essenziali, quello del I secolo a.C. e del I sec. d.C. (se capita di leggere scritti anteriori e posteriori, si è in genere aiutati da robusti apparati di note); chi si mette a studiare l'arabo classico deve invece fare i conti, e solo con le proprie forze, con tradizione e trasformazioni che durano da 1500 anni e continuano a vivere.
Per queste e per altre ragioni, la traduzione delle antiche poesie arabe, a quanto dicono i pochi che si avventurano in quest'impresa, è un percorso accidentato, pieno di dubbi e di misteri, alcuni dei quali sono destinati a restare tali.

El Faro by Giuliano Belotti

domenica 18 aprile 2010

Fantasia Bulgara by Giuliano Belotti

Stangata by Giuliano Belotti

venerdì 16 aprile 2010

COSE DI SPAGNA E D'ITALIA - MIRIAM MAFAI E UN CONVEGNO A CADICE SULLA PROSTITUZIONE 2

Allora, riprendo il discorso sulla II Jornada Andaluza de Debate sobre la Prostitución  indetto dall'Asociación Pro Derechos Humanos de Andalucía. Il convegno si è tenuto nella Facoltà di Lettere dell'Università di Cadice qualche settimana fa.

Così recita la presentazione del programma; quanto al programma vero e proprio, anche se uno non conosce il castigliano, può ugualmente intenderlo aprendo il link: si tratta di frasi brevi.

Presentazione
La tratta di esseri umani è al giorno d'oggi una forma di schiavitù che persiste in società che pure ritengono fondamentale la difesa dei diritti umani. L'impegno della società e dei governi nella lotta contro questo fenomeno è arrivato con lentezza, e ancor oggi la mancanza di dati concreti e di studi specifici rende difficile affrontare davvero questo problema.
Nell'anno 2008, si approva in Spagna Il Piano Integrale di Lotta contro la Tratta di Esseri Umani con Finalità di Sfruttamento Sessuale, senza dubbio un passo avanti nella lotta per combattere questo fenomeno. Però, per noi, è ancora insufficiente. Da parte dell'Associazione Per i Diritti Umani di Andalusia, unendo le nostre voci e le nostre riflessioni a quelle di altre associazioni impegnate anch'esse nella lotta per i diritti umani dei lavoratori/lavoratrici del sesso, abbiamo denunziato l'assimilazione che da parte di questo Piano si fa tra la prostituzione volontaria e la tratta degli esseri umani. Questa assimilazione, che equipara la prostituzione imposta con la volontaria, porta in sé la negazione della capacità di decisione di molte persone, e include coloro che prendono questa decisione nella categoria di vittima e “Vittimizzare è l'opzione meno rispettosa in relazione a nostre simili, che spesso si sentono aggredite quando si trovano di fronte a sguardi pieni di commiserazione” (Espejo, 2009).
Questa questione non è una semplice e innocente disquisizione su concetti astratti. Questa concezione riduzionista che vede la prostituzione come qualcosa intrinsecamente disprezzabile, serve da sostegno e base argomentativa a posizioni normative, ideologiche e sociali che molte volte pregiudicano negativamente le persone che lavorano nella prostituzione: si vedono criminalizzate, esse stesse o i loro clienti e amici, stigmatizzate dalla società, vittimizzate dai loro simili, relegate alla clandestinità…
Per tali ragioni, in questa Giornata abbiamo voluto creare uno spazio dove voci che vengono da ambiti differenti (il diritto, le scienze sociali, antropologiche, il lavoro sessuale, l'arte, la cultura e le nuove tecnologie...) si incontrano per scambiarsi riflessioni, azioni e vissuti sulla prostituzione e la tratta, e, soprattutto, sulla dignità e il diritto a vivere liberi.

Hanno aperto i lavori tre prostitute italiane, che ora lavorano in Spagna. Hanno parlato un po' della loro professione, della loro mobilità, del fatto che hanno occasione di conoscere posti diversi. Hanno dichiarato che sanno leggere la realtà meglio di altri. Hanno parlato del tizio (ho giurato di non nominarlo mai più) che sta a capo del governo italiano, di tratta, di mafie, di autorganizzazione, di leggi. Qualcuna ha detto che non sono solo loro a vendere i loro corpi, anche l'operaio massacrato dal lavoro lo vende.

(Alcune mie considerazioni su quest'ultima affermazione: ho pensato nei giorni successivi alla Jornada a questa analogia fra il lavoro sessuale e quello dell'operaio, il più sfruttato, e sono giunta per ora alla conclusione che abbracciare o essere abbracciati con affetto, senza cercare eccitazione, è comunque diverso dall'avere rapporti che coinvolgano la sfera sessuale; che essere bastonati può essere ancor più terribile che essere violati, ma è un'altra cosa. Per proprietà transitiva, per cauta e dubitosa analogia, “dare” il proprio corpo per un lavoro duro e alienante non mi pare la stessa cosa che fare sesso in cambio di soldi: può essere, in certe circostanze, perfino peggiore, ma non è la stessa cosa, credo. Però, in un campo così arruffato, non vanto le mie impressioni come certezze assolute, anche perché in queste faccende il dubbio è più fecondo di tolleranza e di umanità e l'affermazione di verità rigide è pericolosa, inutile e non serve ad alleviare l'infelicità umana, obiettivo che per me dovrebbe essere al centro di ogni attività sociale.)

mercoledì 14 aprile 2010

ARABISTI E ARABESCHI 3 – QUALCHE AGGIUNTA SULLA BIBLIOGRAFIA ITALIANA

C'è una bibliografia interessante in italiano sull'antica poesia araba, messa in rete dall'Università di Venezia.
Basta osservare i titoli e le date dei libri elencati sotto il paragrafo Letteratura classica, per accorgersi dell'andamento temporale delle traduzioni. In gran parte risalgono a più di quindici anni fa e sono probabilmente introvabili in libreria. Tempo fa ho tentato due volte di procurarmi gli Appunti di metrica araba, di P. Minganti, Roma, Istituto per l'Oriente, 1979, dato come disponibile da grandi librerie on-line, ci ho rimesso i soldi e il libro non è arrivato.

Ho trovato un blog con alcune poesie in arabo e in italiano.

Mancano del tutto in Italia, come mancavano fino a poco fa in Spagna, testi bilingue.

La prossima volta comincerò ad entrare nel vivo.


Il precedente articolo sul tema:

domenica 11 aprile 2010

COSE DI SPAGNA E D'ITALIA - MIRIAM MAFAI E UN CONVEGNO A CADICE SULLA PROSTITUZIONE (1)

Ho sempre amato Miriam Mafai - il suo bellissimo libro di tanti anni fa, Pane nero
ha un posto d'onore nella mia libreria -, ma non mi sono trovata quasi in niente d'accordo con quanto ha detto in un recente servizio di Repubblica on-line, La donna tangente, e con quanto in genere si dice oggi da parte della sinistra di diverse gradazioni a proposito di donne e prostituzione (lascio da parte la destra: preferisco in genere parlare di quelli a cui voglio bene e che considero amici). Non sono d'accordo e non mi è piaciuto. E spiego perché.

Quando nei primi anni settanta il movimento femminista andava gridando per le strade: “Non madonne, non puttane”, ero d'accordo, lo gridavo anch'io. Perché mi pareva ci fosse il rifiuto di riduzionismo, di accettare che le donne fossero catalogate in base ai costumi sessuali. C'erano però, allora, tante differenze fra le posizioni nel movimento, e pure scontri: l'oppressione, i comportamenti, i pensieri, i ruoli... sono natura o cultura? Separatismo o coinvolgimento dei maschi? Quali rapporti con la politica ufficiale, con il movimento sindacale e operaio? Tutte uguali o simili, le oppressioni, o condizioni diverse, legate anche a quella che allora si chiamava “appartenza di classe”? E la sessualità? Ecc. ecc..
Mi pare che poi ci sia stata una deriva verso un pensiero unico o quasi unico che oggi è dominante. Non più madonne, certo, se sono caste è una scelta loro, è volgare e violento scherzarci sopra, queste cose le fanno solo i fascisti; le puttane invece sono restate, nella percezione comune, uguali e peggiori che nel passato: queste ultime vanno certo rispettate, si dice ritualmente, ma di fatto non sono interlocutrici, non si discute con loro, non le si conosce, sembra che tutte debbano avere la stessa personalità, se di personalità si può parlare. La società non chiede nulla a esseri simili, a meno che non siano schiavizzate, non denuncino e quindi non facciano il salto che le porta fuori. Se mai le si compatisce, perché le si pensa tutte tutte in mano a sfruttatori di diverso livello, certo, quasi tutte vittime della tratta oppure strumentalizzate da uomini di potere. La cosa più strana del mondo, però, è che si dica al tempo stesso che i comportamenti di queste ragazze offendono le donne che non sono puttane: un'identificazione simbolica, omologante e disumanizzante per tutte le parti in causa che proprio non riesco, non riesco a capire.

Personalmente, penso che a me sarebbe potuto capitare di diventare prostituta: per dare da mangiare a figli affamati, per cercare di garantire loro una vita degna, per permettere loro di studiare. Non dico che sarebbe stato ovvio e facile: il mio pessimo carattere avrebbe certamente ostacolato non poco la professione. Qualche altra persona potrebbe fare la prostituta perché vuole guadagnare senza uccidersi di fatica in un campo o un'impresa di pulizie o perché le va bene così. Non so come sia questo lavoro, ai diversi livelli, però per me ammettere, e seriamente, questa possibilità del passato è, per quanto strano possa sembrare, per una di quelle capriole bizzarre del pensiero, rasserenamento e al contempo difesa della mia individualità, che non è individualismo in senso deteriore. È rifiuto di questo pensiero unico che mi pare asfissiante, è rifiuto di gettare nell'etichetta di “puttana” la complicazione delle persone vere.

Ed esprimo di seguito alcune mie semplici riflessioni-piccole proteste contro aspetti secondari di questo pensiero unico, che è emerso pure dalla lunga intervista a Miriam Mafai: micro-ribellioni che mi ronzano nel cervello e vogliono uscire, così, alla rinfusa.

giovedì 8 aprile 2010

ARABISTI E ARABESCHI 2 – SULLA POESIA ARABA DEL MEDIOEVO

Lo so a che cosa mi dedicherò nella prossima reincarnazione: a diventare un'arabista seria. Nella vita che sto vivendo ora non faccio più a tempo, mi sono accorta troppo tardi di quanto sia avvincente questo mondo, e il massimo a cui posso giungere è cercare di raccontarne alcuni tratti con l'ausilio di qualche bel libro di arabisti veri, spagnoli e italiani.
Riprendo quindi, come ho annunciato, un ragionamento sulla poesia araba che iniziai sul blog della Round Robin tanto tempo fa. Questa volta però seguirò un percorso che, partendo dalla poesia preislamica della penisola arabica, giungerà a Al-Andalus, la Spagna musulmana: una storia di press'a poco otto secoli. Lo farò a salti, per piccoli campioni, in modo tutt'altro che professionale; non riuscirò di certo, soprattutto per mancanza di traduzioni e di testi disponibili, a “dosare” il discorso sui diversi periodi e poeti in modo proporzionale all'importanza, e qualche volta ripeterò cose già dette tempo fa.

Nei primi articoli non proporrò testi, ma alcune informazioni e dati che serviranno al lettore che non conosca nulla di questo mondo a orientarsi meglio sul discorso complessivo. Nei successivi, cercherò invece di riportare quanti più testi sia possibile, tradotti dall'arabo non da me, ma da arabisti italiani o spagnoli (in quest'ultimo caso tradurrò io dallo spagnolo all'italiano). Si tratterà spesso di frammenti, perché molte poesie arabe del medioevo sono poemetti di notevole ampiezza e complessità, necessitano, per essere compresi, di un poderoso apparato di note, e non possono perciò entrare in forma integrale negli scritti per un blog.

Uno straordinario arabista spagnolo, Jaime Sánchez Ratía, che lavora per l'Onu, ma “si diletta” di antica poesia araba - in verità si tratta di un “dilettantismo” di livello stratosferico - e si vanta di non essere un accademico, ha pubblicato due libri per la bella e raffinata casa editrice Hiperión, che prende il nome da un titano figlio di Gea, la Terra, e di Urano, il Cielo, e padre del Sole, della Luna e dell'Aurora, e pure dal titolo di un'opera di Friedrich Hölderlin. (Questa casa editrice, mi sembra grazioso dirlo, ha pubblicato anche poeti italiani in edizione bilingue: Leopardi, Luzi, e le rinascimentali Gaspara Stampa, Vittoria Colonna e Chiara Matraini.)

Riporto di seguito, perché mi pare illuminante, qualche passo di un'introduzione pungente di Jaime Sánchez Ratía, che meriterebbe davvero di essere letta tutta, al suo primo libro pubblicato da Hiperión, Treinta poemas árabes en su contexto (lo sfrutterò in prossime puntate).

Credimi, lettore, se affermo che la poesia araba – e specialmente la classica – è una delle cose che rendono la vita tollerabile. In questa età del ferro, in cui ci tocca vivere (e in un paese di latta), lasciar da parte la pesante e mortuaria pagina del giornale e immergersi nelle rimate nuvole di universi come il Libro dei canti di Abu-l-Faray al Isfahni o il Tesoro delle cose belle che ha scritto la gente di Al Andalus di quell'Ibn Bassam di Santarén, allunga la vita più di quando facciano lo smettere di fumare, il rinunciare al sesso mattutino o l'astenersi dal consumo di sostanze non permesse dallo Stato paternalista. Senza dubbio, nonostante le sue qualità corroboranti, la poesia araba è un universo inesplorato, di cui solo pochissimi hanno notizia. Il viaggiatore che si addentra nelle sue lande disseminate di lettere esotiche, armato di una bella pazienza (che il buon Dio saraceno prescrive a coloro che vogliono guadagnarsi il paradiso) e di una carrettata di dizionari, ha l'opportunità di visitare un settimo continente dell'umana creatività, l'Antartide sommersa del genio di uno dei popoli più dotati per la poesia che abbiano mai calpestato la terra, gli arabi, la cui lingua potrebbe considerarsi lingua poetica per eccellenza.
E poi Sánchez Ratia non risparmia altre frecciate soprattutto agli accademici spagnoli, che, a suo dire, hanno mirato a pubblicare scritti che potessero essere immediatamente spendibili per la carriera universitaria - ricompilazioni, bibliografie, ecc.- e non si sono impegnati quasi mai nel lavoro di traduzione in apparenza più umile. Dice di loro: “...hanno preferito sguazzare in pozzanghere piene di zanzare che nuotare e andare a esplorare fiumi maestosi.

martedì 6 aprile 2010

ARABISTI E ARABESCHI 1 – SPERANZA DI PERCORSO

Riprenderò nei prossimi giorni in questo mio blog un tema – quello della poesia araba e arabo-andalusa del Medioevo, su cui tanto tempo fa scrissi articoli disordinati in un blog della Round Robin editrice, che poi fu chiuso.

Per ora due parole sugli intenti, gli scopi e soprattutto il titolo di questa sezione del mio blog.
È immenso il patrimonio poetico arabo e arabo-andaluso, ed è poco conosciuto in Italia e in Spagna perché scarsamente tradotto: sono rarissimi i testi di antichi poeti accessibili al lettore che non conosca l'arabo. Non so che cosa ci sia in Francia, in Inghilterra, in Germania e in altri paesi europei: probabilmente una maggiore offerta. Non esplorerò questi mondi, fatta eccezione per un curioso studioso tedesco dell''800, che citerò molte volte in prossimi articoli.

I ragionamenti che cercherò di condurre su quest'antica lirica (arabeschi) si accompagneranno all'esplorazione di traduzioni e ricerche edite nelle mie due “patrie” sorelle (quindi mi interesserò per quel che posso anche di arabisti): si svilupperà così, di pari passo, una piccola bibliografia ragionata, legata alla mia esperienza non esaustiva, anzi sicuramente molto lacunosa, di persona curiosa, non certo di vera studiosa.

lunedì 5 aprile 2010

COSE DI SPAGNA E D'ITALIA - IL BOTTINO E IL RESPIRO

All'indomani di quella che molti, a ragione, considerano una grave sconfitta all'opposizione, la Lega e il Vaticano – quest'ultimo ormai quasi incurante della accuse che gli arrivano quotidianamente di aver coperto nel tempo la violazione di moltissimi bambini – sono partiti all'attacco sul tema dell'aborto. Il corpo, la sessualità umana, tutto ciò che è collegato con queste “entità”, reali e simboliche, si configura come una specie di bottino dei vincitori. Nell'incassare il premio della vittoria, questi ultimi violano sia il diritto dell'essere umano a rispetto e a pietas, senza i quali non si può avere convivenza civile, sia il principio di uguaglianza di fronte alla morale, oltre che alla legge: chi ha potere e denaro oppure è sostenuto da chi ha potere e denaro non è mai “peccatore” o “colpevole”, mentre chi è suddito può facilmente divenire oggetto di condanne dure, sprezzanti, feroci, se non si conforma al volere di quelli che comandano. Infine chi ha potere oggi, nel nostro paese, impone una doppia morale a colpi di vittimismo borioso, e al tempo stesso non si preoccupa più di nascondere l'arbitrio.

Tutto questo, certo, è frutto dell'arroganza di chi ha vinto, ma anche della scarsa chiarezza e di una sorta di depressione e frantumazione etica di quelli che continuano a perdere. A chi fa guerra sul corpo, sulla sessualità, sulla vita e sulla morte, senza alcun riguardo per drammi personali, non si può rispondere restando defilati (come ha fatto il buon Bersani, qualche giorno prima delle elezioni, limitandosi a dichiarare che papi e cardinali hanno diritto di parola: e chi gliela nega? Però gli si può ben controbattere denunciando e soprattutto ragionando sulle ipocrisie anche sessuali e private, sulla continua opportunistica invasione di campo in temi politici!)

Dal grande calderone in cui viene fatto scempio dell'essere umano, esce di volta in volta un pezzetto, un fatto, un pazzo divieto. Poi ciò che è uscito ripiomba nella poltiglia, a rimescolarsi con il resto: dopo un po' ritornerà a riemergere per poi affondare di nuovo e così all'infinito. Oggi la questione della pillola abortiva, domani la pedofilia dei preti liquidata come “chiacchiericcio” e l'attacco a magistrati “diffamatori” di pedofili protetti, un'altra volta la faccenda della libertà di scelta sulla fine della propria vita, un'altra ancora l'ennesimo scandalo di un uomo di potere che si è comprato qualche ora di sesso elargendo favori a spese della collettività, e così via. Cose in apparenza di segno opposto ormai funzionano tutte nella stessa direzione, nel rigonfiamento della melma. E per chi esercita un potere così ammorbato e ammorbante non è neppure importante trionfare definitivamente sul terreno del corpo, la guerra è su altre questioni più decisive: ma questi signori, per continuare a vincere nelle cose sostanziali, devono perpetuare il clima di vergogna, di paura, di chiacchiera malata. Per dissipare questa nebbia greve non basta certo un gesto scaramantico della mano, quasi si scacciasse una mosca: sbaglia chi si illude di poter dissipare facilmente l'incubo, di potersi ricavare così lo spazio che gli consenta di parlare degli "altri" problemi, di “quelli che interessano davvero alla gente”.