"...subito comprai due cavalli, di cui uno d'Andalusia della razza dei certosini di Xerez, stupendo animale, castagno d'oro; l'altro un hacha cordovese, più piccolo, ma eccellente, e spiritosissimo."

(Vittorio Alfieri, La Vita scritta da esso - 1790, 1803)

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Naturalmente nessuna analogia fra me e Vittorio Alfieri. Riporto le sue parole perché mi sarebbe piaciuto vivere in Andalusia quando ci venne lui.

sabato 21 agosto 2010

COSE DI SPAGNA, D'ITALIA E DEL MAROCCO – Incontri nel Nord del Marocco 4


I FIGLI DELLE SEI SORELLE E QUALCUN ALTRO

I figli di Mariam, come ho già detto, devo averli conosciuti fugacemente, non li ricordo. Lo sposo di cui parlerò in seguito è suo figlio, ma non ho potuto parlarci.

Leila ha diversi figli, ne ho conosciuta meglio una, cui ho già accennato, che fa la maestra, è sposata con un giovane che possiede un bazar, e ha un bambino di un anno e mezzo. Mi dice che in Marocco la scuola dell’obbligo dura sei anni, che è difficile portare tutti i bambini al termine, molti abbandonano. Deve essere un bel problema insegnare ai bambini a leggere e a scrivere. La lingua parlata è un dialetto, il darija, che ha molte parole arabe, ma non ha una propria scrittura; nel caso uno debba proprio scrivere qualcosa in darija, usa l’alfabeto latino. Nella scuola, però, si insegna l’arabo scritto, che è l’arabo classico (come se noi parlassimo in un italiano che non viene scritto, perché è solo un dialetto, e scrivessimo in latino!). Si insegna anche, come seconda lingua obbligatoria, il francese. Quindi due alfabeti.
Mi dicono che per merito del re Mohammed VI ora piccoli bus vanno a prendere i bambini da zone sperdute per portarli a scuola. 
Una maestra prende 350 euro al mese, ha un modesto incremento dello stipendio per anzianità; ogni sei anni però può fare un concorso, e se lo vince può aumentare il suo stipendio in misura rilevante.
Ho parlato di lingua e di scuola anche con Latifa, figlia di una zia di Malika e di un imam – l’ho incontrata in una festa –; insegna a Rabat, nel Baccalauréat, gli ultimi due anni di scuola superiore che danno accesso all’università. Mi spiega che i ragazzi studiano in francese le materia scientifiche, in primis matematica; in arabo classico le materia umanistiche, compresa storia. Non so se la divisione sia proprio rigida. Le dico che cerco di studiare arabo classico anch’io, mi fa lì per lì un’interrogazione cattivissima sulla grammatica: me la cavo con un 6-. Poi sento che dice a un’altra: “Ieri siamo andati a Chefchaouen a mangiare il couscous.” E traduco scolasticamente, trasformando la subordinata in coordinata: “’Amsi nahnu dhahabnā ilā Chefchaouen ūa ’akalnā ’lcouscous.”. Mi dice: “Benino. Se vieni a stare a Rabat per un periodo, ti trovo una stanza in affitto e ti do io lezioni di arabo classico!”
A proposito di lingua: Malika, con cui ho fatto nel tempo, a Conil, un po’ di conversazione in arabo classico, qui non si spreca per niente: non c’è verso che, mentre conversano, mi traduca un pezzetto di quel che dicono in darija, mi evidenzi una delle mille parole comuni all’arabo classico. 
Passo ore e ore a cercare di cogliere dalle labbra dei parlanti una parola che mi sia familiare e dentro di me mi arrabbio un po' con Malika. Ricordo per associazione di idee i primi tempi a Conil, le infinite ore trascorse seduta a un tavolino di bar, ad ascoltare senza capire – con la voglia di mandare tutti al diavolo - le chiacchiere velocissime che gli amici andalusi scambiavano fra loro, in questo quasi-castigliano a cui sono state strappate tante consonanti. Così ho imparato a capirlo, ma l’arabo è molto più difficile e il rapporto fra l’arabo e il darija molto più complicato di quello tra spagnolo di Castiglia e spagnolo di Andalusia.

Amina ha un figlio e una figlia entrambi sposati. La figlia lavora con il marito in Spagna, a Malaga, in un bazar, il figlio lavora in Marocco/Spagna, a Ceuta, in qualcosa che si occupa di investigazioni e di sicurezza. La figlia e la nuora di Amina sono giovanissime, entrambe di 22 anni, belle ragazze, e hanno un figlioletto per una. Quella che lavora a Malaga mi dice che gli spagnoli sono assai razzisti: le chiedo di portarmi qualche esempio del razzismo che lamenta e lei mi racconta che sono molti che le chiedono, d’estate, se non sente caldo per via del fazzoletto che porta in testa. Bah, non mi sembrano, questi, gravi sintomi di razzismo, ma non commento.

Fatima, che vive in Francia, ha una figlia bella come una dea, sposata con un ragazzo berbero, alto e assai gradevole, professore di informatica; anche lei lavora, ma non ricordo in quale ambito, e aspetta un secondo figlio. Hanno infatti già una figlioletta di tre anni, bruna, sottile, molto europea, negli atteggiamenti: esigente come una bambina europea; le parlano in francese perché, mi spiegano, il padre usa come lingua originaria il berbero, la madre il darija (il dialetto arabo del Marocco): sarebbe stato troppo parlare alla bambina in tre lingue.
Il secondo figlio di Fatima, maschio, è fidanzato con una ragazza di Parigi che ha il padre armeno-libanese, la madre francese. La ragazza, seguendo un costume certamente occidentale ed europeo, non certo marocchino, ha seguito il fidanzato e la famiglia del fidanzato nella vacanza a Tetouan.

Il figlio di Khadigia, Yusuf, lavora in banca, ha conosciuto la moglie a Marrakesh, lei lavorava (e lavora) nella stessa banca. “Se l’è scelta lui. Nessuno più li obbliga a sposarsi con chi non vogliono”, dice Khadigia. Hanno una bella bambina di due anni, Lina, di cui, mentre loro sono al lavoro, si prende cura una donna. Faccio a Lina il topo con il fazzoletto, sono bravissima a muovere le dita della mano destra in modo che la bestia di pezza scappi quando lei l’accarezza: con questo trucco divento quasi una terza nonna per lei.

Malika, come ho già detto, ha quattro figli; non conosco il maggiore, figlio del primo marito: vive a Conil per conto suo. Gli altri tre hanno tra gli 8 e gli 11 anni. Mariam, la bambina che sarà festeggiata, non legge e a mio giudizio mangia troppe schifezze: la minaccio di farla arrosto, un giorno o l’altro, e lei risponde che non devo arrostirla, ma farle un bel regalo.

Molte fra le famiglie che formano la Famiglia sono arrivate, per le vacanze estive, da diversi Paesi d’Europa: prevalentemente dalla Francia e dalla Spagna, qualcuna anche dal Belgio, dall’Olanda. Altre vivono in Marocco, qualcuna ha un membro che lavora a Ceuta, per conto di imprese spagnole. Mi pare siano i più poveri quelli che vivono e lavorano in Marocco, anche se non tutti.

I vestiti che usano le donne sono soprattutto il jellaba e il caftano. Il jellaba è una veste lunga, larga, molto comoda, d’estate assai leggera, che si usa tutti i giorni, per uscire e anche per casa; ha sempre il cappuccio. Ce ne sono di bellissimi, con ricami colorati fatti a macchina o a mano, nel mercato; ne ho comprati diversi anch’io, sei o sette euro ciascuno: naturalmente ero accompagnata dalle amiche marocchine, se no avrei – giustamente - pagato almeno cinque volte tanto. Il caftano è un vestito lungo, di broccato o di altre stoffe incrostate di fili dorati e argentati, con passamaneria ed eventualmente ricami, e si usa per le feste importanti; viene stretto in vita da un alto cinturone coloratissimo. La donne dai quarant’anni in su, in stragrande maggioranza, si coprono i capelli con un velo di diverse fogge. Le giovani un po’ lo portano, un po’ no; molte non lo portano affatto. Forse le nuove generazioni si stanno emancipando dall’uso del velo, o forse le giovani osservano meno gli usi della tradizione, e poi, quando crescono gli anni, si lasciano un po’ andare, diventano meno vanitose, accettano di coprirsi la testa. Comunque non mi pare ci sia alcuna pressione delle anziane sulle giovani per quanto riguarda l’uso del velo. C’è anche il jellaba maschile, ma per le feste e anche nella vita quotidiana, gli uomini, soprattutto quelli non anziani, usano per lo più abiti occidentali.

Il jellaba domestico ha, a mio parere, una funzione legata all’organizzazione interna delle case e alla Grande Famiglia. Negli otto giorni in cui mi sono trattenuta a Tetouan, ho cambiato più volte casa e giaciglio: e non solo io, anche diverse persone della Grande Famiglia. Si corre da una casa all’altra, continuamente: per mangiare, per andare a bere il tè alla menta e fare merenda, per dormire. Non so se ques’uso sia dettato solo dal senso del dovere o dia anche piacere o sia ansia di acciuffare un’identità tradizionale che se ne sta scappando. Certo è che pare di essere investiti continuamente da poderose correnti di vento, che hanno direzioni assolutamente casuali, e ti trascinano da una parte all’altra, da una casa all’altra. Non so se in passato la Grande Famiglia vivesse più unita nello spazio. Certo è che ora i suoi membri ricercano quest’unità forse un poco mitica correndo da una casa all’altra e incrociando la propria corsa con quella di altri.
Nella casa della piccola matriarca arrivano a ondate, durante le ventiquattro ore della giornata: ci sono sempre cibi buonissimi da mangiare, si può cenare anche dopo mezzanotte, anche alle due di notte. Ci sono sempre posti per mettersi a dormire, a qualsiasi ora della giornata. Non si sta mai mai mai soli. Il jellaba, in questa vita, è utilissima: è veste da casa, veste per uscire a fare commissioni, ma può diventare anche camicione da notte: ti prendi il tuo spazio sul lungo divano, lo delimiti con cuscini e la cuccia è pronta: anche se le mie amiche insistono per dare a me ospite pure le lenzuola e le federe.

È capitato che qualche amico e qualche amica di Bergamo che sono venuti a passare alcuni giorni a Conil si siano scandalizzati per due cose: per il chiasso che fanno le persone di notte, se l’indomani non è giorno di lavoro, e per la lentezza con cui ti servono nei negozi. Io ho sempre obiettato a questi lamenti così: “O ci sono i quartieri-cimiteri o ci sono casino e fracasso. O ci sono le macchine che rischiano di travolgerti sulle strisce pedonali (a me è capitato due volte di essere stata messa sotto da automobili, a Bergamo) oppure macchine che si fermano anche per qualche minuto ad aspettare che tu attraversi le zebre: ma nell’ultimo caso trovi anche i negozianti che ti servono senza fretta e magari si mettono a discorrere con un cliente su “lo que ha pasado a su prima”. La nostra specie si è evoluta in modo pazzo: desidera sempre quel che non può avere. Da sempre vagheggia un giusto mezzo che non esiste. Si schizza continuamente fra i due estremi. Io preferisco il baccano al cimitero, le macchine che si fermano alle strisce a quelle che ti travolgono e per questo rinuncio anche ad essere servita rapidamente nei negozi.” Per come siamo fatti, continueremo per sempre a cercare l’araba fenice del giusto mezzo, e forse è giusto così, ma almeno non ci si dovrebbe arrabbiare se non la si trova.

Su questi divani, io che sono insonne mi addormento subito, profondamente, non mi sveglio mai di notte, alla mattina dormirei fino alle 11. L’essere sempre in una compagnia dedita agli affetti, al cibo, alla Grande Famiglia svuota la testa dalle ansie, e anche, in parte, dai pensieri, il sonno e la veglia si susseguono senza scosse. Non riuscirei a vivere sempre così, ma so bene che, data l’abissale imperfezione dei rapporti umani, ci sono solo due estremi: da una parte la solitudine che tante volte ti addenta, ladra del sonno, ma anche pungolo del pensiero; dall’altra uno stare insieme morbido, e al tempo stesso volubile, in cui ti sembra di dissolverti. Non saprei davvero che scegliere, se potessi scegliere.

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