"...subito comprai due cavalli, di cui uno d'Andalusia della razza dei certosini di Xerez, stupendo animale, castagno d'oro; l'altro un hacha cordovese, più piccolo, ma eccellente, e spiritosissimo."

(Vittorio Alfieri, La Vita scritta da esso - 1790, 1803)

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Naturalmente nessuna analogia fra me e Vittorio Alfieri. Riporto le sue parole perché mi sarebbe piaciuto vivere in Andalusia quando ci venne lui.

giovedì 26 agosto 2010

COSE DI SPAGNA, D'ITALIA E NEL MAROCCO – Incontri nel nord del Marocco 7



DINTORNI DI TETOUAN – CON MALIKA A CHEFCHAOUEN

Un giorno vado con Malika a Chefchaouen, che si trova sulle montagne del Rif, famoso fra i ragazzi occidentali come luogo ideale per spinellare (non so perché, non so se là si trovi l’haschish migliore o a più basso prezzo o se ci sia qualche altra ragione che gli fa scegliere questa meta). Ci arriviamo con un taxi in cui ci sono altri quattro viaggiatori, schiacciati nel sedile anteriore e in quello posteriore (anche noi, naturalmente). Costa due euro viaggiare in queste condizioni per oltre 60 chilometri. È strana la differenza di regole per taxi urbani e taxi extraurbani: quelli urbani, gialli, hanno il divieto, che rispettano tassativamente, di caricare più di tre persone; quelli extraurbani, bianchi, possono caricare tutti quelli che ci stanno dentro.

Chefchaouen, un paese azzurro, si arrampica sul monte come una capra, ma è attraversato da parchi semiselvatici e da una grossa fonte di acqua gelida che cade in cascatelle e si spande, qui e là, su piattaforme di roccia, su cui le persone scendono a bagnarsi i piedi. Ci sono scesa anch’io, non ho resistito più di qualche secondo al gelo, forse perché sono un poco anziana. Però quel pediluvio nel ghiaccio ha spezzato il caldo forte che c’è in questo paese interno, e non a Tetouan, dove soffia quasi sempre un vento rinfrescante.

Sono un poco nervosa, perché ricordo una mattina di due anni fa, che passai a Vejer: un pueblo bianco, anche lui un poco, non vertiginosamente, arrampicato, non su aspre montagne, ma sulle dolci colline andaluse, anche lui proprio arabo e/o maghrebino e/o berbero. Vejer è gemellato con Chefchaouen e quella mattina si celebrava non so quale anniversario di questo hermanamiento. Nella sala del comune di Vejer ascoltai la lezione di uno storico del Marocco, un signore sicuramente più anziano di me, vestito in modo tradizionale: disse, fra l’altro, che, insieme ad altri saggi, aveva scritto al re di Spagna per chiedere – esigere – che agli arabi, ai musulmani, ai maghrebini, insomma, a quelli che avevano vissuto in Al-Ándalus nei secoli passati e poi erano stati cacciati dai cristiani, fosse subito riconosciuta la cittadinanza spagnola. La grande espulsione dei musulmani da Sefarad avvenne nel 1608, quindi dopo quella degli ebrei, cacciati poco dopo la caduta del regno di Granada (1492). Diceva lo storico del Marocco che nella lettera erano indicate le famiglie che potevano vantare questo diritto e i loro alberi genealogici. Io avevo letto di ricerche di questo tipo a proposito degli hadîth: infatti i savi, per stabilire la canonicità di questi racconti sulla vita del Profeta, ricorrevano a ricostruzioni delle catene dei narratori orali, che potevano coincidere, almeno in parte, con catene dinastiche.
Pensai che questa richiesta fosse uno degli innumerevoli scherzi di un culto aggrovigliato della memoria, che, anziché limitarsi ad ammonire, si illude di poter riportare la storia indietro e cancellare retroattivamente le nefandezze compiute dagli uomini. Lo storico lamentò che il re di Spagna non gli avesse neppure risposto. Nonostante le mie riserve sul suo progetto, pensai che sarebbe stato bello avere quel documento: poter leggere alberi genealogici che andavano indietro di quattro secoli, sapere qualcosa di persone che in tempi ormai remoti erano vissute dove abito ora io. Perciò, al termine della lezione, mentre tutti si alzavano, mi avvicinai allo storico e per prima cosa mi presentai: ”Sono italiana.” Lui si aprì in un grande sorriso: “Ah, Mussolini!” Io sussultai e dissi subito: “No, non sto da quella parte. Mussolini non era una brava persona!” Lo vidi irrigidirsi, e comunque gli chiesi della lettera al re, se potessi averne una copia. Lui mi rispose duro: “Arriverà qui, al Comune di Vejer. Venga a prendersela.”

La maledizione della memoria divisa. Ho colto anche in qualcuno degli amici di Tetouan una sorta di nostalgia per il tempo in cui il dittatore Francisco Franco comandava sulla Spagna e anche sul Nord del Marocco, che era colonia spagnola. Franco iniziò la rivolta alla Repubblica spagnola, nel 1936, proprio partendo da Tetouan, e tirandosi dietro truppe marocchine, a cui diede in premio, fra l’altro, la libertà di violentare e massacrare molte donne di parte repubblicana: con la benedizione di Santa Madre Chiesa. E naturalmente, una volta che vinse, riservò alla colonia un trattamento di favore.
Per un po’ di tempo, mi diceva qualcuno nel luogo dove vivo, la parte “democratica” degli spagnoli era risentita e diffidente con i marocchini; ora il risentimento è passato.
Certo, quelli che seguirono Franco, esercitarono così la loro rivalsa violenta contro decenni di colonialismo.
Mi riesce impossibile dire a queste “mie” donne che allora non erano ancora nate e che, anche se fossero state adulte, non avrebbero certo saputo ciò che avevano fatto i loro uomini, la mia condanna di Franco, di Mussolini, di quelli che da Tetouan e pure da questo bellissimo paese di montagna, da altri borghi del Rif, seguirono il caudillo in Spagna. Davvero, ho l’impressione che in questa terra e allora – e non dovunque e non sempre, come uno stereotipo vorrebbe – le donne fossero innocenti, che davvero non portassero la responsabilità degli orrori. So bene che allora i Paesi arabi e anche il Maghreb, il Gran Muftì di Gerusalemme, erano legati all’Italia fascista e anche a Hitler, non certo ai paesi alleati che liberarono l’Europa dal nazifascismo, ma che erano da loro avvertiti come oppressori.

Comunque i pensieri nervosi se ne vanno e camminiamo con Malika per i viottoli di Chefchaouen, beviamo l’acqua che esce da buchi nella roccia, ci sediamo sotto gli alberi e ci raccontiamo qualcosa della nostra vita, dei nostri figli.
Poi, tornando al centro del paese, compro qualche jellaba
maschile come veste da casa per i miei figli: ho considerato sempre gli uomini gravemente svantaggiati perché non possono usare gonne larghe, neppure d’estate, quando i pantaloni si appiccicano alle gambe. Questo regalo sarà un’assai parziale riparazione di questa ingiustizia.

Poi ci sediamo al tavolino di un bar e mangiamo per un euro cibo di dei: passato di fave con peperoncino piccante.

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