"...subito comprai due cavalli, di cui uno d'Andalusia della razza dei certosini di Xerez, stupendo animale, castagno d'oro; l'altro un hacha cordovese, più piccolo, ma eccellente, e spiritosissimo."

(Vittorio Alfieri, La Vita scritta da esso - 1790, 1803)

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Naturalmente nessuna analogia fra me e Vittorio Alfieri. Riporto le sue parole perché mi sarebbe piaciuto vivere in Andalusia quando ci venne lui.

lunedì 23 agosto 2010

COSE DI SPAGNA, D'ITALIA E DEL MAROCCO – Incontri nel Nord del Marocco 5



FESTE: UNA REGINA E UNA PICCOLA PRINCIPESSA

La prima spinta ad andare in Marocco, questo luglio, è stato l’invito a una festa di nozze di uno dei numerosi nipoti di Malika. I matrimoni musulmani non si celebrano in moschea, non hanno il valore del “sacramento” cristiano: sono patti civili che devono comunque sottostare a regole. Questa festa quindi non ha quindi una parte religiosa (anche se so che in qualche caso e forse in altri luoghi in moschea si può ricevere una sorta di benedizione) e ha inizio alle 19 di sera.
Adesso è consuetudine, anche per persone che non sono ricche né benestanti, affittare un locale. Per questa festa, è stato scelto un ristorante che ha un grande salone a piano terra, collegato a un altro ampio locale che si trova a un livello un po’ più alto; tra i due locali c’è una specie di corridoio che finisce ai piedi di un podio su cui sono sistemate due sedie simili a troni. Nella parte più ampia e più bassa, in cui ci sono molti tavolini con sedie, ci sistemiamo noi donne; nella parte un po’ più alta, ma aperta sulla prima, c’è un’orchestra con un cantante; in un’altra zona della parte sopraelevata si sistemano gli uomini. In tutto, sicuramente, più di cento persone. C’è poi, lo vedrò più tardi, un piano superiore, una grande veranda con tavoli all’occidentale. Gli sposi arriveranno più tardi.
Malika mi viene vicina e mi dice: “Questa è la Famiglia, sono pochi gli amici. E non è neppure tutta, ci sono tanti che non sono potuti venire.”

Passano continuamente camerieri, ovviamente presi in affitto per quella sera, con fiumi di tè alla menta e vassoi pieni di piccole cose da mangiare. Tutto buonissimo, in particolare certi fagottini ripieni di pezzetti di pollo zuccherato con mandorle e non so quali erbe, e dei triangoli di pasta sfoglia ripiena di un formaggio di capra leggermente acido e dolce. Poi tutto ciò che di dolce si può costruire con le mandorle, con il miele, con i pistacchi, con le varie farine. Si mangia moltissimo, non riesco a sottrarmi. Le donne, amiche o sconosciute, parlano in darijia, ma qualcuna anche con me. L’orchestra suona musiche e canzoni dai ritmi arabi, il cantante fa bene il suo mestiere.
Qualcuna mi spiega perché tutte restano sedute: ora che si usa affittare un locale, e che quindi nella festa sono riuniti uomini e donne, queste ultime hanno vergogna di ballare.

Ricordo a tal proposito una festa di matrimonio a cui partecipai in Palestina, nella Striscia di Gaza, nel 1995. Erano allora in faticosa marcia gli accordi di Oslo, una parte di Gaza stava rifiorendo, c’erano giardini pubblici rigogliosi pieni di giochi per bambini. Certo, c’era anche un immenso campo profughi, ma in tante persone si leggeva la speranza e te la dicevano anche apertamente.
Le donne italiane del gruppo, tra cui c’ero anch’io, furono invitate dunque a questa festa, che si teneva in un grande giardino privato, credo della famiglia della sposa: secondo l’uso musulmano, a Gaza c’era la festa per le donne separata da quella per gli uomini. Tutte ballavano, dalle bambine di tre anni alle anziane: la danza del ventre. Nella danza del ventre bisogna saper muovere simultaneamente la pancia, il culo, le gambe soprattutto nella parte alta, le spalle, le braccia, le mani: così si crea quella sensazione di tremore ipnotico che incatena lo spettatore.

Mi pare che anche in Marocco tutti gli esseri umani di sesso femminile imparino assai precocemente la danza del ventre, ma in questi matrimoni che si festeggiano in locali presi in affitto – costerebbe troppo affittarne due per fare due feste separate – le donne restano sedute. Solo qualche ragazza più audace si lancia per qualche minuto nella zona libera dai tavolini, nel corridoio che porta al podio dei troni. Nessuno, proprio nessuno, disapprova o si scandalizza: eppure sono poche quelle che osano.
Infine arrivano gli sposi: vestiti quasi completamente all’occidentale. Lei con un abito bianco, leggermente scollato, le maniche corte, il velo e lo strascico; l’unica concessione alla tradizione del proprio paese è una corona d’argento sulla testa, che la fa regina delle mille e una notte; lui in abito scuro. Naturalmente tutti applaudono e loro vanno a sedersi sui troni, dove resteranno per molto tempo, immobili e stanchissimi, a farsi fotografare con invitate e invitati che a turno, a gruppi di due o tre, salgono sulla pedana e si mettono in posa accanto agli sposi. Dopo almeno un paio di ore ha termine la lunga cerimonia delle fotografie. I due si alzano e ritornano dietro le quinte, cioè in una stanza in cui non hanno accesso gli altri. Lui ricompare subito, e viene immediatamente circondato dai suoi amici maschi che gli mettono addosso una specie di mantellina con un cappuccio che gli tirano davanti agli occhi; poi lo portano in giro, dicendogli qualcosa con l’atteggiamento di chi fa la predica: naturalmente, parlano nel mio “amato” darija. Io chiedo a chi mi sta vicino di spiegarmi almeno qualcosa, e mi viene detto frettolosamente che la sposa sta cambiandosi il vestito, e gli amici dicono allo sposo che deve essere forte per riuscire a sostenerne la bellezza, quando comparirà.

Anche a Gaza, nel 1995, nei giardini, c’era una coppia di sposi vestiti all’occidentale. Lei indossava, ricordo, un vestito bianco molto scollato; era rossa di capelli, aveva carnagione bianca piena di lentiggini. Li ripresi con una piccola macchina fotografica - non certo digitale – che, mi resi conto dopo, era felicemente impazzita: scattava più fotografie sullo stesso pezzo di pellicola. Uscirono foto bellissime e magiche, con più paesaggi sovrapposti, come fossero di nebbia o di velo. Ma quelle degli sposi non uscirono.

Quando tutto mi pare finito – gli sposi se ne sono andati da un bel pezzo e io mi sento piena come una tacchina – mi dicono che si va a mangiare. Io trasecolo, ma faccio finta di niente e seguo il gruppo in cui mi trovo. Si va a turno ai tavoli sulla veranda del piano superiore, dove ci portano enormi vassoi pieni di carne e cuscini di pane arabo, così caldo e affettuoso che viene la voglia di abbracciarlo e baciarlo. Non riesco a toccare la carne, che per tradizione si mangia con le mani; però inzuppo due pezzetti di pane strappati crudelmente a quelle dolci pagnotte nell’intingolo che è buonissimo e sarebbe divino se non fossi già così piena.
Vengo a sapere dopo che ogni volta che si fa una festa di matrimonio si sacrifica un toro. Gli interessati vanno a sceglierlo in un allevamento, quindi la povera bestia viene uccisa, cucinata e servita.

Nei giorni successivi chiedo poi alle mie amiche da quanto tempo c’è questa consuetudine di festeggiare le nozze in locali pubblici, presi in affitto. Mi dicono che c’è da poco: prima le feste si facevano in casa. D’accordo, ma uno doveva avere una casa
ben grande per accogliere tutta la Famiglia. Mi rispondono che se uno aveva una casa troppo piccola, chiedeva una casa grande in prestito a vicini che ce l’avevano. Ah, allora si affittavano le case dei vicini… Ma no, non si affittavano, le prestavano; e quando si andava per preparare la festa, si trovava la casa pronta, pulita, lucente.

Faccio la sfrontata e chiedo quanto può costare un locale come quello in cui si è festeggiato il matrimonio; costa circa 1000 euro (è facilissimo trasformare i dirham in euro, basta dividere per 10: è una misura un po’ approssimativa, bisognerebbe in realtà dividerli per 11 virgola qualcosa): certo, costa così un locale di quel tipo e di quelle dimensioni, ma ce ne sono di molto più belli e più cari. Chiedo quanto costa un toro: altri 1000 euro. Poi ci sono i dolci, l’orchestra, i vestiti, l’acconciatrice che va a pettinare, a truccare, a porre la corona e il velo alla sposa…
Osservo: ma se uno non ha i soldi per fare tutto questo? Io, per esempio, se si sposasse un mio figlio, non potrei permettermi queste spese. Allora, mi dicono, interviene la Famiglia: uno si impegna a pagare il locale, l’altro il toro, l’altro i dolci, l’altro l’orchestra…

Dopo qualche giorno, un’altra festa: per la presentazione ufficiale della bambina di Malika, di otto anni, vestita da principessa, alla Famiglia. È un po’ come la vostra prima comunione, mi dice la mia amica. Sì, preciso io, però non tutti, in Spagna e in Italia, fanno fare la comunione ai figli, non tutti sono cristiani, e meno che mai cattolici: i miei figli, per esempio, non hanno fatto né il battesimo né la comunione.
La festa si tiene nella grandissima casa di Amina. Le donne stanno al piano di sopra, gli uomini al piano di sotto, dove c’è anche la cucina.

Mi trovo al piano di sotto a far qualcosa. Ad un certo punto sento venire dal piano di sopra un suono forte di tamburi e qualcuno mi dice: “Corri su, comincia la musica.” Salgo le scale di mala voglia, che cosa strana, quella musica. Ma quando arrivo su, al suono dei tamburi – strumenti di varia forma e grandezza – si è unito il canto. Cinque donne vestite con caftani bianchi e con veli grigi che coprono i capelli e sono legati dietro, sulla nuca, come si legava il foulard Claudia Cardinale – avranno tra i quaranta e i cinquant’anni – suonano con tamburi di varie forme e dimensioni e cantano con voci piene e forti una musica bellissima, che ti porta dritta fra le stelle. Le amiche mi dicono che sono canti sufi in lode del Signore. Le parole sono semplici, mi spiegano: Lode ad Allah e al suo Profeta e poco altro. Ah, il sufismo, lo conosco… Ibn Arabi… Mi guardano con ammirazione: sai proprio tante cose di noi, della nostra religione.

Ma io sono stregata da questa musica. Davvero, è come se ti trovassi in movimento circolare che non si arresta mai, fluente ed energico, non violento. È certamente l’esperienza più bella di questo mio viaggio in Marocco. Le musiciste cantano e suonano i tamburi con molta scioltezza, come se generassero vita, non musica. Mi siedo di fronte a loro e sto a sentirle e a guardarle. Ogni tanto si fermano e soprattutto una, molto bruna e magra, quella che canta più spesso delle altre, con una voce potente, mi sorride. Ogni tanto bevono dell’acqua.

Intanto Malika è chiusa con la figlia e l’acconciatrice in una stanza da letto. Infine la bambina e la mamma si affacciano nel salone. Le musiciste tacciono e Malika tiene per mano la bambina incoronata da principessa, vestita d’oro e d’argento, gli occhi lunghissimi per il trucco. La fa avanzare a passetti piccolissimi e il loro incedere dà l’impressione di un movimento meccanico di bambole camminanti oppure cinesine di un tempo con i piedi costretti e restare piccoli, infilati in zoccoletti tormentosi. La bambina si va alla fine a sedere su un sedile ornato - non proprio un trono, ma quasi – che non si trova su una pedana isolata, ma è stato costruito sulla parte centrale di un lungo divano, con l’ausilio di cuscini e di drappi. Là avviene la cerimonia delle fotografie: non c’è però un fotografo ufficiale, ma la cugina che viene dalla Francia le scatta con una macchina digitale.

Quando ha termine il rito di presentazione della principessina alla Famiglia, le cinque musiciste riprendono a battere sui tamburi e a cantare. E diverse signore e signorine si gettano nella danza. Ma come, – chiedo io a Khadigia – la danza del ventre al ritmo di musiche mistiche? Ma certo, – mi risponde – Dio non è contrario a questi balli, non c’è nulla di male.

E infine l’epilogo. Dopo che mi sono di nuovo riempita di cose buonissime, vedo arrivare grandi vassoi con su non pezzi di toro, ma poveri polli arrostiti con tante mandorle. Anche questa volta mi limito ad annusarne il profumo e a mangiare un pezzetto di pane imbevuto nel sugo, ma la carne proprio non ce la faccio a toccarla.

Alla fine riesco una volta ancora a fare qualche conto in tasca alle mie amiche: non credo certo che i soldi siano tutto, ma pure mi paiono indizi importanti… di che cosa? Non lo so.
Comunque: per l’acconciatrice, 50 euro (sono molti di più per una sposa adulta); per le musiciste, almeno 5 o 6 ore di canto e tamburi, complessivamente 60 euro. Mi dicono, le sorelle: “Guadagnano bene, in questa stagione. Vanno a due o tre feste al giorno! Sono molti a fare le feste durante le vacanze estive, quando i familiari arrivano dai paesi europei.” Io mi domando: “Ma come fanno a cantare per tante ore? Per 12 e più ore al giorno? E come possono essere considerate ricche e fortunate? ” Sono domande cui non so rispondere.

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