Inchiesta su giovani e lavoro, El País, La Repubblica
Quello che dirò in questo post, come ho già preannunciato, sarà, almeno per molti aspetti, in contraddizione con quanto ho raccontato nel precedente, facendo riferimento al libro Vivo altrove - Giovani e senza radici: gli emigranti italiani di oggi, di Claudia Cucchiarato.
Parlando di giovani, disoccupazione e precariato, farò riferimento a due grandi quotidiani, El País e La Repubblica, affratellati in tante occasioni (pubblicano qualche gli stessi articoli, si scambiano “visite” di direttori e giornalisti, ecc. ecc.)
El País sta pubblicando un grande servizio a puntate sui giovani spagnoli: si tratta di quel giornalismo di inchiesta avvincente, che si avvale di una ricca messe di dati, ma anche di interviste, della narrazione di storie individuali: apre non solo finestre, anche porte grandi sul mondo, sensazione che difficilmente si prova leggendo la nostra stampa.
L'inchiesta de El País, nel suo complesso, ha come titolo Reportaje (pre)parados. Un sovra-titolo che gioca sul senso del participio “preparados”: i giovani disoccupati sono parados (“disoccupazione” in spagnolo si dice “paro”, e “disoccupato” “parado”); però, al tempo stesso sostiene che questa generazione di senza-lavoro, di parados, appunto, è pure formata in buona parte da giovani preparados, preparati come mai è avvenuto nella storia: giovani che parlano più lingue, cosa che la nostra generazione neppure si sognava, che hanno a volte più titoli accademici, che hanno fatto esperienza di master e di dottorato in paesi diversi e lontani, ecc. E questo riconoscimento ai ragazzi mi pare molto bello e giusto. Non sopporto la hybris di persone della mia generazione che parlano di questi giovani con tono di sufficienza, come se si trattasse di una massa di ignoranti.
L'inchiesta de El País, nel suo complesso, ha come titolo Reportaje (pre)parados. Un sovra-titolo che gioca sul senso del participio “preparados”: i giovani disoccupati sono parados (“disoccupazione” in spagnolo si dice “paro”, e “disoccupato” “parado”); però, al tempo stesso sostiene che questa generazione di senza-lavoro, di parados, appunto, è pure formata in buona parte da giovani preparados, preparati come mai è avvenuto nella storia: giovani che parlano più lingue, cosa che la nostra generazione neppure si sognava, che hanno a volte più titoli accademici, che hanno fatto esperienza di master e di dottorato in paesi diversi e lontani, ecc. E questo riconoscimento ai ragazzi mi pare molto bello e giusto. Non sopporto la hybris di persone della mia generazione che parlano di questi giovani con tono di sufficienza, come se si trattasse di una massa di ignoranti.
Giornalisti de La Repubblica conducono una coraggiosa battaglia di civiltà e di smascheramento delle infinite malefatte di chi oggi ha il potere (non su tutti gli argomenti, in particolare negli articoli di cronaca “nera”, il livello resta alto; e il gossip di prima pagina dell'edizione on-line è certe volte quasi insopportabile): in molti casi, con le loro analisi puntuali e certamente faticose del quadro politico italiano, pacate ma lontane da ogni codardia e quasi sempre da ogni esasperazione e schematismo, danno l'impressione svolgere un ruolo vicario di un'opposizione quanto meno democratica che pare a volte incredibilmente paralizzata e balbettante.
Però si ha anche l'impressione che l'inevitabile affanno a denunciare la malattia italiana tolga spazio allo spirito di inchiesta, alla lettura approfondita e ampia di aspetti importanti della società, di un brutto sogno che giornalisti valorosi devono attraversare fino in fondo, per forza. Tra le mascalzonate di chi ci governa e di chi asseconda quest'atmosfera c'è anche una sorta di “riduzione in schiavitù” del buon giornalismo, costretto a inseguire squallide vicende pubbliche e private di potenti furbi e ignoranti.
Però si ha anche l'impressione che l'inevitabile affanno a denunciare la malattia italiana tolga spazio allo spirito di inchiesta, alla lettura approfondita e ampia di aspetti importanti della società, di un brutto sogno che giornalisti valorosi devono attraversare fino in fondo, per forza. Tra le mascalzonate di chi ci governa e di chi asseconda quest'atmosfera c'è anche una sorta di “riduzione in schiavitù” del buon giornalismo, costretto a inseguire squallide vicende pubbliche e private di potenti furbi e ignoranti.