"...subito comprai due cavalli, di cui uno d'Andalusia della razza dei certosini di Xerez, stupendo animale, castagno d'oro; l'altro un hacha cordovese, più piccolo, ma eccellente, e spiritosissimo."

(Vittorio Alfieri, La Vita scritta da esso - 1790, 1803)

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Naturalmente nessuna analogia fra me e Vittorio Alfieri. Riporto le sue parole perché mi sarebbe piaciuto vivere in Andalusia quando ci venne lui.

lunedì 13 settembre 2010

ARABISTI E ARABESCHI 16 – ETÀ DEGLI ABBASIDI 4 - Un poeta bizantino-persiano, di fede musulmana, “peccatore” e sfortunato, alla prese con i califfi di Baghdad

Ibn ar-Rūmī fu chiamato “figlio del Greco” perché figlio di un bizantino convertito all'Islam. Rūmī in arabo ha il significato di “romano” (venivano chiamati così i bizantini, sudditi dell'Impero romano d'Oriente). La madre era invece persiana. Ormai pienamente inserito nella società araba, visse in età Abbàside, nel IX secolo. Fu poeta di corte, ma anche partecipe delle lotte del tempo all'interno della società musulmana. Aderì al movimento mu'talizita e sciita (per informazioni su questi movimenti, puoi leggere un mio precedente post), si schierò spesso dalla “parte sbagliata”, nelle sanguinose contese per la successione califfale.
Ebbe una vita difficile, amareggiata dallo scarso riconoscimento delle sue qualità letterarie, funestata da lutti familiari. Il suo diwan (canzoniere), che comprende circa 17000 versi, contiene canti su temi assai vari: immagini e vicende della vita sociale e politica del suo tempo, descrizioni piene di virtuosismo di persone, animali, aspetti della natura, amore raffinato, satire contro poeti rivali.
Pare che questo poeta sia morto in seguito a un misterioso avvelenamento nell’896.
La sua posizione religiosa non gli impedì di condurre una vita “libera”, contraria alle norme della sua religione, di scrivere poesie bacchiche spregiudicate.

Propongo di Ibn ar-Rūmī tre poesie. La prima tratta da un bel libro, Hafez Haidar, La letteratura
araba dalle origini all’età degli Abbasidi, Rizzoli 1995, che purtroppo non si trova più nelle
librerie, solo nelle biblioteche. Mi chiedo perché le case editrici non ripubblichino opere importanti
e interessanti, di cui ci sarebbe ancora bisogno. Nel caso specifico, perché si pubblichino nuove
opere di Hafez Haidar e si lascino andare nel dimenticatoio un libro prezioso dello stesso autore.

All’avvento della sera

In questi versi vengono tematizzati la nostalgia d’amore o il desiderio inappagato e inappagabile d’amore, più che la pienezza d’amore. Il viso del poeta è rigato di pianto, la malinconia dello scenario naturale è in consonanza con quella dell’animo. Eppure si avverte che questo pianto, questa “malattia d’amore” sono cari al poeta, che mai vorrebbe liberarsi da simili pene. Sono, questi, temi e sensibilità che nei secoli seguenti attraverseranno la poesia europea, quella arabo-ispanica e anche la lirica in lingue neolatine, a cominciare dalla provenzale.

All’avvento della sera
Il sole è tramontato lentamente
E avviandosi verso il suo fatale destino
A poco a poco si spegne all’orizzonte
Dando il suo addio al mondo
Spargendo nel suo viaggio i suoi deboli raggi.
Sull’erba danzante dei campi fioriti
Un tenero fiore bianco si è rattristato
Ed è appassito con i suoi petali
Dormendo sulla terra dei sogni.
Anche gli occhi della luce sono bagnati di brina
Come gli occhi lacrimanti di un innamorato.

in Hafez Haidar, La letteratura araba dalle origini all’età degli Abbasidi, Rizzoli 1995
Caccia agli uccelli

Di ispirazione molto diversa sono i versi che seguono, che tematizzano l'amicizia fra uomini: un motivo che, come sappiamo, permea di sé le letterature classiche, greca e latina, e ritornerà con forza in quella volgare, basti pensare alla poesia di Dante. L'altro motivo è quello di una gagliarda crudeltà nei confronti dei dolci esseri alati, il cui sgomento e il cui dolore “umani” non muovono certamente a pietà l'animo dei cacciatori.

Esco al mattino a caccia degli uccelli, quando essi ancor dormono, e se sentissero la mia uscita non dormirebbero più.
Assieme a due amici che formano con me un fraterno terzetto, con corpi diversi e anima una,
obbedendo a passioni che convergono in un'unica passione, e se fossero scagliate come frecce non mancherebbero il bersaglio.
Quando uno di noi chiama il suo amico esclamando: “Ti sia io di riscatto”, l'altro sollecito risponde all'appello,
quasi avesse in ogni membro e giuntura ed arto un cuore ardente di brage.
Essi corsero ai loro arnesi di caccia, e si cinsero di rosse bisacce contenenti stemprato veleno,
rabescate, di quelle cui si affidano i depositi perché non vadan perduti,
gravate di un viatico leggero a portarsi, fatto di pallottole pesate, poche e convincenti (1).
Si appostarono per quegli storditi (2), e si succinsero fino a metà le braccia e le gambe.
Gli archi dei nostri fecero l'ufficio loro fra gli uccelli, e quelli presero a procombere e venir giù prostrati dinnanzi ai cacciatori,
bianche e nere le vittime abbattute, che di puro bianco e nero screziavano la superficie della terra.
Di varî noi ne facevamo un mazzo, disperdendo per contro quei che erano uniti d'affetto fra loro.
A quanti di loro che pensavano di partirsi noi accorciammo la lontananza, conntro ogni loro decisione!
A quanti di loro arrivanti a una desiderata sede, uno di noi fece fare alt, e quei si mise giù!
Quivi gli uccelli van trovando un luogo ove abbattersi, mentre il frustrato lor calcolo era di trovare un luogo di pascolo.
Leciti bersagli per il tiratore, quasi la voce della morte li avesse a lui chiamati, facendosi chiaramente sentire.
Tu torni con la preda che ti ha arricchito, lasciando altri uccelli doloranti e angosciati.
Lasciano famigliuole ben dolorosamente colpite, ben degne di alzare dolorose strida,
intese sono a ricacciare indietro i loro piccolini, per timore che nell'aria vadan perduti.

(1)I proiettili da lanciare alla preda; e “gli archi” di cui poco oltre si parla saranno allora piuttosto fionde o balestre [nota dei curatori dell'antologia]
(2) per quegli storditi: si tratta naturalmente degli uccelli, forse ancora pieni di sonno.

Elogio del vino

Quella che segue è una poesia bacchica. Il poeta appare particolarmente spregiudicato e ribelle ai dettami della sua religione, che vieta l'uso dell'alcol, proprio perché fa riferimento alle sentenze dei “savi”: nel mondo musulmano, com'è noto, non ci sono figure simili ai sacerdoti o ai pastori del cristianesimo. Tuttavia hanno un grande peso i “savi”, gli ulema, conoscitori e interpreti del Corano e dotati di autorità morale. I curatori dell'antologia da cui ho tratto questo testo spiegano in una nota che riporto chi erano i due ulema a cui il poeta si riferisce.

Il dotto del Iráq ha dichiarato lecito bere il vino dei datteri, sentenziando: “Proibito è quello dell'uva”.
Il dotto del Higiáz ha detto: “Le due bevande sono tutt'uno”;
quindi, nel loro disaccordo, ci è ormai lecito il vino.
Io combinerò gli estremi delle due sentenze, e me e berrò, possa il peccatore mai separarsi dal suo peccato! (1)
Vino, come l'ultimo fiato dell'anima, tanto sottile da essere inattingibile al tatto.
Il tuo aroma dà al cuore del bevitore l'euforia della speranza a il riposo della disperazione.
Allunga la speranza di chi se ne è inebriato, sì da sperar che l'ieri possa mai far ritorno.

(1) Il dotto dell'Iráq è uno dei quattro capiscuola del giure musulmano, Abu Hanifa, e quello del Higiáz ash-Sháfii: l'uno considera lecito il vino di datteri, l'altro dichiara che quello di datteri e quello di uva sono uguali, beninteso nel divieto; ma il poeta combina a suo vantaggio le due sentenze, e ne conclude la liceità totale del vino.
(Le ultime due poesie sono tratte dall'Antologia della letteratura araba di F.Gabrieli e Virginia Vacca, cit., pag, 104-106)

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