"...subito comprai due cavalli, di cui uno d'Andalusia della razza dei certosini di Xerez, stupendo animale, castagno d'oro; l'altro un hacha cordovese, più piccolo, ma eccellente, e spiritosissimo."

(Vittorio Alfieri, La Vita scritta da esso - 1790, 1803)

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Naturalmente nessuna analogia fra me e Vittorio Alfieri. Riporto le sue parole perché mi sarebbe piaciuto vivere in Andalusia quando ci venne lui.

lunedì 18 ottobre 2010

COSE D'ITALIA, MENO DI SPAGNA – SCRIVERE E LEGGERE – L'esperienza e il giudizio di valore

Fa forse parte dell'involuzione sociale e culturale che abbiamo vissuto in questi anni nel nostro paese il fatto che non ci si interroghi più sul senso dello scrivere e del leggere. Ci sono “scrittori laureati”, quelli che vendono molto e/o partecipano a festival letterari, tanti li vanno ad ascoltare, senza porsi troppe domande sul senso del tutto. Gli adulti che non leggono - compresi molti insegnanti - dicono che i ragazzi devono leggere. E basta così. “Ya está”, direbbero in Spagna.


Sono convinta che l’arte e la letteratura siano diventate, con la nascita e la crescita della secolarizzazione e della miscredenza, il paradiso dei laici. Evidentemente è difficile per gli esseri umani fare a meno della fede in un’entità metafisica ed eterna. L’idea che l’arte (faccio riferimento a quella parte di “arte” che viene comunemente chiamata “letteratura”) sia qualcosa che, grazie ai suoi valori estetici, vola al di sopra del tempo e della storia, ha avuto origine forse un paio di secoli fa ed è stata poi ribadita in vari modi, fino ai nostri giorni. Ma questo paradiso, come tutti i paradisi, con il tempo si è degradato. E sono tanti quelli che cercano di entrarci. A degradarlo non è il fatto che siano in tanti a scrivere, ma che molti di questi lo facciano per la voglia di entrare in un brutto paradiso e che chi ha le chiavi di ampie zone di questo paradiso apra le porte soprattutto a persone come Bruno Vespa.

Un salto nel ragionamento che poi spero di giustificare.
Quando facevo l'insegnante, mi arrabbiavo con una scuola che sposava schemini didattici di cui non si chiedeva l’origine teorica e - perché no?- ideologica, e lo statuto, e li proponeva/imponeva agli studenti senza domandarsi che effetto avrebbero avuto su di loro, che cosa avrebbero dato e tolto loro. Naturalmente mi riferisco al modo con cui i libri di testo – e di conseguenza i professori che difficilmente si staccavano dal libro adottato – proponevano lo studio della letteratura. Per molti anni ha avuto la preminenza, dopo i “furori” degli anni sessanta e settanta, un approccio “scientifico” al patrimonio letterario: strutture narratologiche, focalizzazioni, scarti semantici, figure, metriche, generi e sottogeneri, intertestualità decontestualizzata, nelle sue diverse versioni… Un ennesimo tentativo di restaurare il paradiso più volte pericolante. Niente di male nel fare oggetto di analisi questi apparati concettuali, queste strutture retoriche, questi motivi che hanno viaggiato nel tempo e nel cervello delle persone, trasformandosi. Forse letture quasi esclusivamente contenutistiche di tempi precedenti, spesso troppo ideologiche, nel senso di schematiche, che non prendevano quasi in considerazione le forme dei testi, erano altrettanto monche e limitate. Però è curioso, paradossale, ma non stupefacente, che delle scuole critiche (a partire dal Formalismo russo e dal Circolo di Praga) che avevano distinto il letterario dal non letterario per reagire alla dura rozzezza positivista (e in parte anche al “realismo socialista”) abbiano poi cercato una “scientificità”, un’“obiettività” a cui le “scienze dure” stavano in parte rinunciando. Questa ricerca di scientificità ha spinto a isolare gli “oggetti letterari” dalla vita, a disseccarli. L’autore è stato scarnificato, ridotto in polvere ed è sparito, almeno provvisoriamente. Il paradiso letterario, sede delle opere letterarie, è stato spesso proposto ai comuni mortali, nel caso specifico agli studenti, come un regno sempre più lontano e astratto, e anche per questo sempre più escludente, esclusivo e desiderabile. D’altra parte dalla polvere in cui è stato ridotto l’autore sono nati spettri narcisisti (degli scrittori viventi, naturalmente).
In un suo libro assai stimolante (non in tutto condivisibile, per me), che ha ormai undici anni di vita, L’ombra lunga dell’autore, una simpaticissima studiosa, Carla Benedetti, ha messo in evidenza come l’autore, cancellato, ricompaia come fantasma prepotente ed esibizionista di un mondo mediatico.

A mio parere, uno degli snodi che ha portato a questo disseccamento/rinascita narcisistica dell’autore contemporaneo è stato proprio quel concetto di scarto semantico, quella piccola deviazione che si attribuisce a-prioristicamente al testo letterario rispetto ai discorsi dei comuni mortali, al fine di spedirlo nel sistema letterario paradisiaco, dove sono pronti tavoli per autopsia su cui opera lo scienziato-critico. L’opera letteraria, secondo questi orientamenti, può essere oggetto solo di un giudizio estetico basato essenzialmente su un’analisi formale e al massimo intertestuale. Tale giudizio, infine, non può che risultare alla fine tautologico: questa cosa è bella perché formata da parti/parole/strutture interessanti… Non c’è nessun vero incontro “umano” fra l’autore, allontanato dalla città degli uomini, che magari riappare frettolosamente in qualche festival della letteratura, e il lettore.
Per me è invece è fondamentale, pur attraverso tutte le mediazioni, i viottoli, i passaggi tra forme e collisioni fra testi, mettermi a parlare con l’autore. Non è che io pretenda di essere sullo stesso piano di Alessandro Manzoni: che i pochi lettori di questo mio scritto non mi attribuiscano, per favore, un simile pensiero. Manzoni è quel grande autore che amo contro tutte le monumentalizzazioni che ne sono state fatte, è oltre tutto un autore canonico e il canone, pur essendosi formato per sedimenti, quindi per via empirica e non metafisica, è necessario: forse non sempre giusto, ma passerella non per personaggi che si esibiscono, ma per persone che rischiano di affogare nel mare magnum delle scritture. Il canone richiama, a mio parere, non i fasti letterari di quelli che ci sono entrati, ma la limitatezza umana. Ma Manzoni mi dice anche attraverso le scelte stilistiche, linguistiche, i riferimenti ad altri scrittori ecc., qualcosa di me stessa, della mia esperienza, su cui posso discutere. Un’attitudine ermeneutica che non si arresti al testo, ma vada a sollecitare il senso della vita dell’autore, e persino le sue intenzioni, è la sola permessa nel rapporto interpersonale: uno che dà i suoi scritti ad altri legittima con questo atto tutti gli arzigogoli sulla sua visione del mondo, delle donne, degli uomini, del sesso, del sogno, dei figli, della guerra, della pace, dell’inconscio, della coscienza, della natura, degli alberi, delle case e delle cimase. Per me è questa la ragione per cui vale la pena leggere: leggere non è né un merito né una cosa necessaria. Certe volte le persone che non leggono niente sono incantevoli e acute, assai più di certi lettori divoratori. Non c’è bisogno di chiudere Manzoni nel recinto dei santi e delle forme, non ne ha proprio bisogno, per essere interpretato, capito, per essere interrogato da chi lo legge a distanza di più di un secolo e mezzo.
Quello che sto dicendo non è affatto originale. In una parte del mondo accademico, per i più avveduti (penso a Giulio Ferroni, anche a Romano Luperini, penso a Rolando Damiani… forse sono rimasta indietro, ho lasciato scuola e Italia ormai da anni, ce ne saranno altri che mi sfuggono o non conosco affatto) queste considerazioni sono forse scontate. I libri di questi studiosi circolano da tempo nelle scuole, ma non so quanto molti insegnanti siano consapevoli della proposta epistemologica di cui sono portatori. A molti queste sembreranno elucubrazioni di una vecchia professoressa… e forse lo sono davvero elucubrazioni di un tramonto non sempre colorato. Però penso che i giovani di oggi, qualunque cosa facciano, non debbano dimenticare quello che hanno dato o tolto o nascosto o distorto gli anni di scuola: se no, si affetta tutto, si vivono pezzi isolati di vita, si gettano via troppi scarti.

E arrivano le gelmini.
E veniamo allora al giudizio di valore: è inevitabile alla fine darlo. Per ragioni pratiche, perché si deve scegliere, per esempio, chi e che cosa pubblicare. Però non dovrebbe il giudizio di valore avere lo spazio che certe volte ha: dovrebbe essere formulato con la consapevolezza che è un male necessario, legato alla finitezza umana. Specialmente dal versante editoriale, non si possono incontrare ermeneuticamente (nel senso che ho dato sopra a questa parola) tutti quelli che inviano i loro scritti. E comunque questo giudizio dovrebbe fondarsi sempre sulla consapevolezza del fatto che il valore è stabilito in gran parte dalla collisione fra esseri umani e sentimenti di vita: se io sento che quello che ha scritto tizio provoca in me emozioni e fa germogliare pensieri, il giudizio di valore sarà positivo. Certo, non prescinderò – lo ripeto un’ennesima volta – dalle scelte formali che leggo nello scritto di tizio, ma alla fine quello che deciderà sarà il confronto fra i due mondi di pensieri, di sentimenti e di convinzioni di cui siamo portatori. Non esito a dire che se fossi stata redattrice in una casa editrice e mi fosse capitato il manoscritto de Il piacere o quello de Le novelle della Pescara, tremende, di D’Annunzio, avrei espresso serie riserve per la pubblicazione. Faziosa? Sì.

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