"...subito comprai due cavalli, di cui uno d'Andalusia della razza dei certosini di Xerez, stupendo animale, castagno d'oro; l'altro un hacha cordovese, più piccolo, ma eccellente, e spiritosissimo."

(Vittorio Alfieri, La Vita scritta da esso - 1790, 1803)

*************************
Naturalmente nessuna analogia fra me e Vittorio Alfieri. Riporto le sue parole perché mi sarebbe piaciuto vivere in Andalusia quando ci venne lui.

domenica 27 giugno 2010

ARABISTI E ARABESCHI 11 - LA POESIA NELL'ETÀ DI MAOMETTO E DEGLI OMAYYADI 4 – Il deserto e la città e la fuga dell'adultero.


MAYSŪN BINT BAHDAL

La poetessa Maysūn Bint Bahdal, figlia dell’ importante capo di una tribù beduina, visse nel secolo VIII. Pare fosse originariamente cristiana, convertita all'Islam dopo il suo matrimonio con il califfo omayyade Mu'āwiya. Visse molti anni nel deserto, dedicandosi all'educazione di suo figlio Yazld, che sarebbe diventato califfo dopo la morte del padre. Non è questa l'unica poetessa del medioevo islamico. I suoi versi si collocano nella tradizione lirica assai ricca ed elaborata dei beduini: cantano la vita e la natura aspra, ma avvincente, del deserto. Maysūn Bint Bahdal scrisse anche poesie di amore per lo sposo.
In questo frammento, la poetessa rievoca i luoghi a lei cari e li contrappone al raffinato ambiente cittadino e di corte, in cui è costretta a vivere e che avverte come estraneo a sé, troppo artefatto e sofisticato. L’orgoglio beduino e la celebrazione del cammello come fido compagno, animale bellissimo e nobile, sono motivi ricorrenti nella poesia araba del tempo.
La contrapposizione deserto-città (con relativa corte califfale) ci fa pensare alla contrapposizione campagna-città che ha percorso la tradizione poetica latina e italiana: ricordo i grandi esempi delle Georgiche di Virgilio, e poi Orazio, e, nella letteratura italiana, Petrarca, Boccaccio (la città invasa dalla peste, la campagna luogo di salvezza), e tanti altri. Certamente il deserto non è l'ambiente bucolico che ritroviamo nel poeti che ci sono più consueti.


Il deserto e la città

Una tenda dove sbattono i venti
più cara è a me di un eccelso palazzo;
vestire un rozzo manto è il mio sollazzo,
quando ho l'occhio fresco, e ho più gradimenti
che fini stoffe avere e trasparenti;
l'urlo dei venti agli sbrani, febbrile(1),
mi è più caro che il batter dei tamburi;
un cane che laggiù ringhia ai viandanti
mi è più caro di un gatto strisciamuri;
i giovani cammelli scalpitanti
che seguon le lettighe, più di muli
veloci mi sono graditi; un magro
fra i magri miei cugini mi è più caro
di un robusto straniero e dei suoi muli.
Nella mia tenda più del pan sottile
mi piace un rozzo pane aver fra i denti.
Null'altro voglio che la mia terra
quella è per me, nobile terra.

(Antologia della poesia araba, La Biblioteca di Repubblica, Gruppo editoriale L’Espresso, S.p.A., Roma 2004. Trad. di Francesca Maria Corrao e Giacomo Trinci; questa poesia è stata tradotta da M.Corrao)

Una spiegazione, non relativa al testo originale, ma alla traduzione: 1- l'urlo del vento desertico, e pertanto molto caldo, penetra nelle lacerazioni (agli sbrani, probabilmente della tenda);

Ho tratto questo testo da un volume che fa parte di una collezione sulla poesia del Gruppo editoriale L'Espresso, che non ho citato nella bibliografia ragionata contenuta nei primi post della serie Arabisti e Arabeschi. Il volume, pregevole, propone molte poesie, composte in un arco di tempo ampio, dall'antichità all'epoca contemporanea. I traduttori hanno fatto la scelta di rendere molti di questi testi con ritmi, giochi di suoni (rime e allitterazioni) e tratti lessicali che evocano linguaggi della nostra tradizione poetica. Personalmente preferisco traduzioni letterali più semplici, che mi pare restituiscano meglio al lettore che non conosce l'arabo il senso e lo spirito di questa poesia, rinunciando, com'è forse inevitabile, alla trasposizione metrica.

AL FARAZDAQ

Riporto, per presentare questo poeta, le parole di Jaime Sánchez Ratia: “Al Farazdaq è il soprannome di Abu Firas Hamman ibn Galib, e significa in arabo 'quello che ha la faccia simile a pane di otto soldi', più o meno. Il Kitab al Agani [se ne è parlato in un post precedente] afferma che non si tratta del pane che le donne beduine cuociono su una pietra piatta, ma della pasta che queste stendono per fare il detto pane. Si pose al poeta questo soprannome per la faccia che, a quanto pare, aveva, estremamente larga e grossa. Era così poco attraente che, stando a quel che si racconta, in una certa occasione, si innamorò di una schiavetta e le lanciò un intenso sguardo. La ragazza si accorse del desiderio del poeta e gli disse:
' Che ti succede? Perché mi guardi così? Per Dio, se anche avessi mille fighe, non te ne farei provare neppure una.'”(Treinta poemas árabes en su contexto, a cura di J. Sánchez Ratia, op, cit.)

Pare anche, sempre secondo la storia leggendaria, che fosse “picaro litigioso, prepotente, ricattatore.” (F.Gabrieli, Letteratura araba, cit.). Al Farazdaq riempí di scandali la società del suo tempo, celebrò e vituperò a seconda della convenienza. Raccontò con la sua poesia avventure amorose, contrarie alla morale musulmana, ma anche lodi di grandi figure dell'Islam. Famoso il suo canto di lode a Zayn al Abidin, personaggio venerato soprattutto dagli sciiti.
Propongo di seguito la parte finale di una composizione in cui il poeta vanta una sua vicenda amorosa clandestina.


La fuga dell'adultero

[La composizione, un poemetto, racconta nella prima parte l'avventura amorosa che il poeta ha avuto con una delle mogli di un importante personaggio. Al termine dell'incontro clandestino, l'amante deve andar via senza farsi sorprendere dai due portieri che fanno la guardia alle porte dell'eccelsa dimora della bella. Metterà mano alla spada e ammazzerà il portiere più temibile, per poter passare indenne? No, si calerà dall'altissima finestra. La ragazza sposa adultera viene aiutata nell'impresa di far uscire l'amante sano e salvo da un'altra moglie del marito tradito: la poligamia, in alcuni casi, non gioca a vantaggio dell'uomo! È una sorta di “poligamia solidale” contro uno sposo non certo amato.
Fa impressione l'insistenza sull'altezza a cui si trova la stanza della bella: la sottolineatura di questo particolare esalta insieme l'audacia dell'amante libertino e il potere sociale del marito gabbato.]

Addusse allora ella lunghe corde e comparve un'altra sposa di lui, di un gagliardo dalle temibili vendette.
Io presi allora l'estremità delle corde, restando commesso a Dio di agevolare le difficili imprese
e, “Sedete”, dissi, “lo star ritti può far perdere l'equilibrio e stringete insieme la corda al cui rischio m'affido!”.
Quando dissi: “Ho toccato terra!”, ondeggiaron le corde dall'alto di un fastigio qual cima montana, dalle temute scorciatoie.
Eccelsa cima cui non arrivano le aquile, i cui veroni toccano quasi le più alte vette del cielo.
Allorché i miei piedi si furono posati sul suolo, le due belle gridarono: “Si può sperarti vivo, o temerti ucciso?”
“Tirate su le corde”, risposi, “che non s'avvedano di noi!” e me ne andai tuffandomi nell'ultima oscurità notturna.
Mi spenzolaron giù quelle due da ottanta lunghezze, come vien giù a piombo, un falco, chiudendo le brune sue penne.
Al mattino, io me ne stavo fra la gente seduta, ed ella era da me reclusa nelle serrate magioni di lui.
Ella passò la notte, docile quale altalena di ragazze, mentre il marito si giaceva fra borborigmi e voci del ventre
credendosi ch'ella avesse passato castamente la notte, mentre gli anelli delle sue caviglie avevano fatto con noi una bella trottata, in un gioco di cui le son grato.
Signore, se mi perdoni la notte di an-Naqa(1), mi perdoni di certo tutti i miei peccati.

(da Francesco Gabrieli, Virginia Vacca, Antologia della letteratura araba, Edizioni Accademia, 1976)

Una sola spiegazione: 1- an-Naqa è un paese della Penisola Arabica, quello della bella.

Per leggere il post precedente sulla poesia araba di quest'epoca, clicca qui.

Nessun commento:

Posta un commento