"...subito comprai due cavalli, di cui uno d'Andalusia della razza dei certosini di Xerez, stupendo animale, castagno d'oro; l'altro un hacha cordovese, più piccolo, ma eccellente, e spiritosissimo."

(Vittorio Alfieri, La Vita scritta da esso - 1790, 1803)

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Naturalmente nessuna analogia fra me e Vittorio Alfieri. Riporto le sue parole perché mi sarebbe piaciuto vivere in Andalusia quando ci venne lui.

sabato 6 novembre 2010

COSE D'ITALIA E UN POCO DI SPAGNA – Bersani, Vendola e qualche ricordo

Ho ascoltato con attenzione gli interventi di Nichi Vendola al Congresso di Sinistra Ecologia Libertà e di Bersani all'Assemblea Nazionale dei circoli Pd riuniti a Roma: da quest'angolo di Spagna, lontana da molto tempo da un impegno politico diretto di cui non mi sento più capace.
Anche per questo posso esprimere pensieri e riflessioni da una distanza piena di affetto e anche di passione, ma che resta distanza, da qualche anno anche fisica.

Comincio da Bersani, che ha parlato oggi (puoi cliccare qui, anche se non è stato ancora pubblicato il video intero). Per più di metà dell'intervento, ha insistito sui problemi interni del Pd, sulla sua forza, sul “rimbocchiamoci le maniche”, sulla necessità di convincere gli italiani della bontà del programma di cui il partito è portatore. Ha detto, a proposito dei recenti e più antichi scandali che hanno riguardato il premier, che per governare bisogna essere anche brave persone, corrette. Ha accennato alla Lega che dopo aver accusato Roma ladrona se l'è fatta con i corrotti e con i ladroni. Il paese è allo sbando, è tutto da ricostruire, ha detto Bersani: la scuola, il lavoro, bisogna riequilibrare il carico fiscale che ora grava sulle spalle dei più disagiati. Questa legge elettorale è una vergogna, ha detto, neppure io vorrei governare con condizioni del genere: se hai il 30% dei voti, puoi fare e disfare a tuo piacere. Il Pd è un grande partito, l'unica vera alternativa. E quindi ha proposto, ricevendo dalla platea molti applausi, una manifestazione per l'11 dicembre, una spallata al governo attuale, indegno e indebolito.
L'impressione che ho ricevuto dal suo discorso è che per lui sia chiaro da tempo ciò che si deve fare, se mai il programma andrà articolato meglio, ma ci sono certezze di fondo sulla direzione da prendere.
Molto diverso il tono dei discorsi di Nichi Vendola, che sicuramente sento assai più vicino a quello che penso e chiedo io, e chiederei ancor più insistentemente se fossi giovane. Per questa ragione mi avventuro a riprendere alcuni aspetti dei suo ragionamento e anche del suo modo di porsi, cerco di analizzarli anche alla luce di un'esperienza soggettiva passata e presente, e infine di manifestare il disagio per quelle che mi sembrano insufficienze della proposta.

Nichi Vendola non rigetta all'esterno la responsabilità di quest'involuzione della società italiana. Cerca un cambiamento che sia innanzi tutto cambiamento della stessa sinistra, di cui legge le insufficienze, gli schematismi, le illusioni e anche gli equivoci tragici in cui è incorsa nel tempo, specificamente nel secolo scorso.
Il suo discorso è continuamente teso a raccogliere e far rivivere la tradizione di sinistra che ha fatto in positivo tanta parte della storia dell'ultimo secolo, e soprattutto di riportarla nella modernità, di metterla a confronto con i problemi e le sensibilità dell'oggi. La preoccupazione di misurarsi con la modernità è centrale nella proposta di Sinistra Ecologia Libertà: e questo è importante, perché la modernità, se non la governi, ti mangia.
Ed è altrettanto centrale, nel discorso di Vendola, la critica che può essere letta anche, in parte, come autocritica da sinistra (peraltro non nuova, ma molto appassionata), nei confronti delle tragedie del socialismo reale del XX secolo.
E anche la ricerca di una strada che non sia violenta: “La non violenza è la critica più radicale della violenza del potere. La violenza colpisce, la non violenza capisce”. Naturalmente tutto questo lo si può dire – e si spera di poterlo praticare – oggi: perché la non violenza è ancora bambina ed è a rischio continuo, è difficilissimo farla crescere perché diventi l'anima di una società più giusta e buona.

Altri aspetti del discorso di Vendola vorrei mettere in evidenza.
Quello che pare un linguaggio ispirato, “poetico”, a me sembra il frutto di uno sforzo tutto politico – relativo alla politica in senso ampio a alto - di segnare una necessarissima cesura rispetto al degrado anche linguistico che ha accompagnato e sicuramente favorito e permeato di sé questa decadenza italiana. Non solo il rifiuto dell'armamentario di volgarità in cui siamo immersi e da cui siamo contaminati, ma anche il superamento di un'intonazione pragmatica di basso profilo, dell'idea che al popolo ci si debba rivolgere con parole semplici e con proposte schematiche, tutto ciò è una scelta politica, non estetica. E questo linguaggio e modo di argomentare alludono in modo continuo e testardo al ruolo decisivo che il sapere e la passione per la conoscenza devono avere in una rinascita del nostro paese.
L'altro aspetto, sempre relativo alle modalità di comunicazione e di elaborazione, che sento di condividere profondamente, è l'appello continuo alla narrazione. È da tanti anni che da varie parti si lamenta un appiattimento sull'immediatezza, sul presente. Ed è vero: il passato è spesso ridotto ad arsenale simbolico da usare contro gli avversari, il futuro fa paura, è allontanato fino a perdersi nella nebbia. L'indigestione di immagini e la morte del discorso, nel nostro paese – l'agonia è iniziata dalla fine degli anni settanta a opera di diversi soggetti, l'ammazzamento definitivo è avvenuto negli anni ottanta per mano principalmente, ma non esclusivamente, del craxismo – ci hanno fatto vivere la realtà come spiaccicata su un vetro.
Ricordo a tal proposito due mie esperienze. La prima, un viaggio in Palestina, di cui ho già parlato in questo blog, che feci nel 1995, prima che Rabin fosse ucciso e quando erano ancora in piedi le pur difficili promesse di Oslo. Fu un viaggio politico, finalizzato a conoscere palestinesi variamente impegnati nella costruzione del loro stato futuro (che poi, com'è noto, non sarebbe mai sorto). Non intendo qui riprendere la difficile, ardua questione del rapporto fra israeliani e palestinesi. Quello che mi lasciò stupita fu il fatto che dei miei più di quaranta compagni di viaggio italiani, in buona parte insegnanti, quasi nessuno aveva letto un libro, di qualsivoglia tendenza, sulla storia della regione; ma quasi tutti erano armati di potenti macchine fotografiche, e riprendevano i campi-profughi, e Gaza, e la sinagoga di Hebron, e i check-point, ecc.. Immagini senza dubbio importanti e necessarie, ma che parlavano in modo diverso, molto più aggressivo e privo di speranza e povero, perché non erano accompagnate da una o più narrazioni.
Penso con orgoglio a un'esperienza del mio ultimo anno di insegnamento. Avevo una classe di ragazzi meravigliosi che andavano alla maturità, decidemmo il viaggio di fine scuola ad Auschwitz e poi a Praga. Mi ero sforzata di disintossicarli dall'invasione di immagini orride: a cui alla fine ci si abitua, non è possibile non diventare insensibili. I mucchi di morti, le foto di persone sottoposte ad esperimenti ecc., alla fine non commuovono più. Si produce la reificazione dei corpi mutilati, dei morti, delle sofferenze. Perciò ci eravamo preparati ad Auschwitz leggendo più che si poteva di ebrei vivi, della storia del popolo ebraico, di ciò che aveva detto Tacito di loro, del suo modo tendenzioso di interpretare l'esodo narrato dalla Bibbia, e poi di storie degli ebrei della diaspora. Ci eravamo affacciati sulla grande letteratura yiddish dell'Europa dell'Est, scritti di ebrei non credenti e di chassidim, e avevamo anche parlato dell'ebraismo di Svevo, di Saba, di Freud, di Levi, ecc.. Insomma, il recupero della narrazione, non come memoria congelata, ma come faticosa incursione nel passato che umanizza il presente, che permette la commozione di fronte alla terra svuotata, desertificata, di Auschwitz, dove, a guardare dall'alto, non c'è neppure un cumulo di sassi, un angolo di muro dietro cui un individuo potesse per un istante nascondersi, per sottrarsi allo sguardo delle guardie. Ci fu in quell'occasione una differenza enorme tra l'attenzione dei “miei” ragazzi e quella di ragazzi di altre classi in viaggio con noi, che avevano saputo di Auschwitz e degli ebrei solo o principalmente attraverso i numeri e le immagini degli uccisi.
E penso infine che se uno venisse qui, a Conil, armato di macchina fotografica. senza interessarsi a narrazioni, potrebbe riprendere Estela, una delle mie amiche rom di recente immigrazione, che chiede l'elemosina seduta sulle scale della chiesa, e dimostrare che anche in Spagna gli “zingari” chiedono la carità: ma non saprebbe nulla della condizione vera di Estela, non saprebbe dove vive, che pensa, come si trova qui, perché chiede l'elemosina. L'immagine da sola non gli direbbe proprio nulla.
Perciò la narrazione, per come ne parla Nichi Vendola, è anche un interrogarsi sul progetto, sul futuro: con fatica, perché non si tratta di riesumare una memoria fissata una volta per tutte e perciò mummificata, ma di ragionare su presente, passato e futuro.
Questi aspetti riguardanti la comunicazione, il modo di affrontare i problemi dell'oggi, non sono un lusso, ma una necessità. Con le modalità comunicative dominanti, con il degrado del linguaggio, con l'uso dell'immagine di cronaca nera cinico e spregiudicato che fanno anche giornali – penso a La Repubblica e persino a L'Unità – pur impegnati in coraggiose battaglie di denuncia, credo che non si possa uscire dal cosiddetto berlusconismo.

Altri motivi mi sono parsi di particolare interesse nel discorso di Vendola, ma anche bisognosi di sviluppo, approfondimento, precisazioni.
Tra questi, il discorso su religione e cristianesimo. Il movimento dei cattolici del dissenso, che si richiamavano al Concilio Vaticano II, fu decisivo nell'evoluzione della società italiana, nell'affermazione di uno spirito di tolleranza, di un'avanzata della democrazia, a partire dagli anni sessanta e per buona parte degli anni settanta. Poi si è avuto quasi un occultamento di questi cattolici, non si sa quanti siano stati inghiottiti e metabolizzati dalle tendenze dominanti. Certo, la Caritas e altre parti della chiesa, malgrado le posizioni delle gerarchie, lavorano per aiutare chi ne ha bisogno, ma anche per conoscere e far conoscere realtà che l'attuale potere nasconde: gli zingari, gli immigrati, i marginali, i minacciati dalle organizzazioni criminali. Però la loro azione poco influisce sulla mentalità comune e sulle posizioni ufficiali della chiesa potente. Sarebbe importante che questa parte di credenti venisse allo scoperto, si assumesse responsabilità politiche nelle nuove battaglie per una vita più giusta. Avrei voluto però che Nichi parlasse anche del mondo dei non credenti: perché chi rinuncia a una fede non è carente di qualcosa, ma sente che proprio nella precarietà della vita ci sono ragioni di compassione e di solidarietà per chi è parimenti fragile e soggetto ai colpi di fortuna che non prevede riscatti in altre vite.
Il riconoscimento del ruolo dell'impresa nella democrazia italiana e nell'avanzamento della società è stato un altro punto di forza. Un mondo imprenditoriale che forse potrebbe esprimere una sensibilità democratica più alta di quella che manifesta la Marcegaglia, che s'è ribellata all'attuale destra solo quando gli interessi che rappresentava e lei personalmente sono stati colpiti. Il ruolo dell'impresa, il compito di innovare e di innovarsi, non cancella i diritti dei lavoratori e neppure smorza il conflitto che deve necessariamente esserci per la ridefinizione e la difesa dei diritti. Ho rincontrato recentemente un mio vecchio amico, compagno operaio di una grande fabbrica, che poi ha lavorato al Manifesto. Non ci vedevamo da decenni. Mi ha fatto lo stesso discorso di Vendola sul ruolo dell'impresa nella società, e mi ha stupito.
Certo, su questo come anche sul discorso ambientalista, sono necessari approfondimenti robusti. Nell'ambientalismo confluiscono – lo si vede anche nel mio pueblo spagnolo – tendenze diverse: c'è chi si compromette con il mondo com'è ora, e chi preferisce volgere lo sguardo nostalgico al passato, quando il pueblo era povero e vergine; non importa se i bambini che morivano erano tanti, non importa se ora, pur vagheggiando quel paradiso perduto, si prende l'auto che va a benzina anche per percorrere cento metri. L'essenziale è che non si mettano mulini a vento nell'oceano, a dieci chilometri dalla costa.

Centrale, nel discorso di Vendola – lo ha percorso tutto – è l'intreccio strettissimo fra democrazia avanzata e conoscenza. Non si tratta solo di scongiurare la cosiddetta “fuga dei cervelli”, che forse fuga non è più, visto che nel giro di pochi decenni i giovani, non solo per necessità di sopravvivenza, sono diventati davvero cittadini del mondo e molti di loro si spostano anche per scelta. Parlare di meritocrazia, contro i meccanismi clientelari e familistici, va bene; ma nessuno dice che anche quelli che non vincono un concorso universitario sono degni di vivere in modo degno.
E l'altro filone del discorso di Nichi è stato la lotta alla precarietà, in tutti gli ambiti: contro la precarietà nel lavoro, nell'abitare e in tutti gli altri aspetti basilari della vita umana. Un bel racconto di Luciano Gallino,  Diario postumo di un flessibile, raccontava già nel 2002 il disastro che si è andato sempre più drammaticamente evidenziando in questi anni. Io sono stata giovane e impegnata politicamente in un tempo in cui pensavamo che il proprio “essere sociale”, quello che si faceva nel mondo per guadagnarsi da vivere, avesse di per sé un significato politico: si ragionava perciò sull'organizzazione del lavoro in fabbrica, su ciò che si insegnava e su come si insegnava, su come si curavano le persone, ecc., certamente anche con ingenuità e schematismi sbagliati. Però mi chiedo come questi ragazzi a caccia di pezzi di lavoro o magari vagabondi nel mondo per scelta possano ragionare sulla qualità di ciò che fanno nella fabbrica, nella scuola, nella sanità, nelle istituzioni culturali, possando ragionare partendo dal di dentro. O se la politica è destinata a staccarsi del tutto da questi aspetti dell'esperienza. O se l'esperienza debba imparare a parlare in modo diverso da quello che conoscevamo. È un problema che Vendola si pone, quando parla di lavoro che è esploso, che si è frantumato.
Spetterà alle nuove generazioni e alle rappresentanze politiche che si sceglieranno rispondere a questa e ad altre domande epocali.


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