"...subito comprai due cavalli, di cui uno d'Andalusia della razza dei certosini di Xerez, stupendo animale, castagno d'oro; l'altro un hacha cordovese, più piccolo, ma eccellente, e spiritosissimo."

(Vittorio Alfieri, La Vita scritta da esso - 1790, 1803)

*************************
Naturalmente nessuna analogia fra me e Vittorio Alfieri. Riporto le sue parole perché mi sarebbe piaciuto vivere in Andalusia quando ci venne lui.

lunedì 18 ottobre 2010

VECCHI E GIOVANI D'ITALIA E DI SPAGNA 4 – Riflessioni


Passato e presente

E ora lascerò discendere sulla pagina elettronica riflessioni a ruota abbastanza libera sulle differenze che corrono fra la sensibilità politica mia e quella di persone dell'età dei miei figli e di ragazzi più giovani di loro, italiani e spagnoli, che ho conosciuto in questi anni. Anche se a volte il mio discorso potrà assumere toni di argomentazione razionale, oggettiva, vorrei che quanto segue fosse considerato non come pretesa di lettura politologica, ma come testimonianza di esperienze passate e di un cammino del mio pensiero che nasce dalla vita, dal ricordo e dall'osservazione. Dovrei accompagnare molte affermazioni che farò con un “mi pare”, “nel mio ricordo”, “secondo me”. Queste sottolineature della soggettività della mia lettura del passato e del presente le lascerò nella penna, o meglio nella tastiera, saranno fantasmi aleggianti sul mio discorso.

Comincio dal lavoro. Ai miei tempi il modo il cui si lavorava, gli obiettivi, i ritmi, il rapporto fra biologia umana e fatica quotidiana: tutto ciò era al centro della riflessione operaia, almeno di una parte importante e colta dei quadri di fabbrica, ma anche di molti tra coloro che lavoravano nella scuola, nella sanità, negli ospedali psichiatrici, nelle banche.
I miei primi anni di insegnamento li feci a Dalmine, un centro la cui vita da molti decenni ruotava intorno all'omonima grande fabbrica a partecipazione statale (riporto dati a memoria, potrei sbagliarmi: a quei tempi  c'erano circa 8000 lavoratori nella fabbrica, ora meno di 2000). Molti fra noi insegnanti ragionavamo insieme su come si dovesse insegnare, su quali contenuti, sul rapporto fra adulti e ragazzi … il cuore del nostro agire era il cuore del nostro lavoro. Molte sedute del consiglio di fabbrica furono dedicate alla scuola e fummo invitati a partecipare e lo facemmo dapprima con preoccupazione di non essere all'altezza, poi con la voglia di discutere. E così avvenne per molti degli stessi operai: il lavoro di fabbrica veniva scomposto, conosciuto, discusso nella sua qualità e nei suoi ritmi. E si incontravano con noi, forse all'inizio preoccupati anche loro, per costruire un progetto comune.
La parte del movimento a cui sentivo di partecipare aveva al centro della riflessione proprio il lavoro, la “politicità”, in senso lato, delle scelte di lavoro e professionali, la tendenziale estinzione o riduzione all'essenziale del politico di professione: non in nome di un'antipolitica simile a quella odierna, in gran parte responsabile dell'orribile populismo che ben conosciamo, purtroppo, ma del progressivo disvelamento della politicità dell'essere sociale, dell'operare nella società. Fu proprio questo il movimento de Il Manifesto e la storia del giornale omonimo, per una buona parte degli anni 70 (dopo le cose cambiarono); ebbe questo segno la grande conquista operaia delle Centocinquanta ore.

Proprio per ciò furono pochissimi o forse quasi nessuno gli aderenti al Manifesto coinvolti o anche sfiorati dalla tentazione del terrorismo cosiddetto “rosso”, formato, nella migliore delle ipotesi, da coriacei, spietati, schematici, ripetitivi “professionisti della rivoluzione”, programmaticamente e necessariamente esterni alla società e dotati di cinismo, certezze rigide e semplici, di durezza di mente e di cuore.

La lotta non ottusa per una società davvero fondata sul lavoro, su una trasformazione del lavoro e delle professioni, portò in sé tante velleità, e moltissimi errori, ma aveva la ricchezza di un progetto nel complesso buono, che forse avrebbe potuto crescere, se fosse stata attrezzata al cambiamento che stava avvenendo nel mondo della produzione e nella società, e non fosse stata anche sconfitta da spinte esterne potenti e in parte imprevedibili.

L'errore generale, sotto il quale possono raccogliersi tutti gli errori specifici, fu probabilmente nel non aver preso sufficientemente in considerazione la necessità di misurarsi, in tutti i settori – fabbrica, scuola, medicina, psichiatria... - con le tecnologie e i nuovi apporti della modernità. E la modernità, se non la governi, ti mangia e produce scempi. E, aggiungo, contro tutti i tentativi di scivolamento in facili nostalgie di mitici passati bucolici, che una modernità ben indirizzata può dare strumenti per il miglioramento della vita di tutti.
I giovani che ora usano internet per convocare manifestazioni, riunioni, proteste, per lavorare, per comunicarsi le loro idee, forse ignorano il luddismo della generazione che li ha preceduti, un luddismo a volte attivo e qualche volta fatto di indifferenza: atteggiamento proprio anche di quei padri di sinistra che amavano ragionare sulle cose, che non andavano avanti a forza di “abbasso l'imperialismo e i piani del capitale”.

Il terrorismo fece la sua parte nell'impulso alla polarizzazione schematica delle posizioni, nella decapitazione di un pensiero politico ancora adolescente, ma chissà, forse promettente.

Contemporaneamente i movimenti che portavano alla ribalta della vita politica aspetti dell'esistenza che ne erano restati sempre fuori – i compiti di riproduzione, la vita sessuale, l'essere giovani e vecchi, genitori e figli, la vita e la morte ecc. - slittarono sempre più verso l'assolutizzazione di questi aspetti. Le donne divennero La Donna, in qualche caso dotata persino di tratti mistici, i giovani della fine degli anni '70 gridarono scemo all'anziano sindacalista, che forse aveva difetti, ma scemo sicuramente non era.

L'ho già detto, non intendo fare una storia di quegli anni, ma riprendere qualche frammento di quel passato per metterlo in confronto con il presente di una generazione che non è certo quella del '77: una generazione che mi incuriosisce, ma che non riesco a capire abbastanza: sento che tra me e loro c'è stato un salto molto più grande e brusco di quello che ci fu a suo tempo fra me ribelle e la generazione repressiva dei miei genitori. È intervenuto un cambio davvero epocale fra la mia esperienza e quella dei miei figli.

Per quanto mi riguarda, ricordo che, dopo la mia mia laurea (novembre 1968), avevo di fronte un anno quasi vuoto, e volevo andarmene di casa. Mi fu offerta dal mio professore di tedesco la possibilità di andare a Monaco a imparare bene questa lingua, per poi tornare all'Università: avrei trovato in Germania persone che mi avrebbero aiutato inizialmente, poi avrei dovuto trovarmi un lavoro, visto che sull'aiuto della famiglia non avrei potuto contare. Ci pensai per un po', e rinunciai spaventata.
Mi fu offerto poi per l'estate del '69 un posto di baby sitter – avrei dovuto seguire al mare una famiglia ad accudire due bambini – , ci pensai un attimo, ma rifiutai pure questo: non perché disprezzassi quel lavoro e neppure perché non amassi lavorare – lavorare mi è sempre piaciuto -; ma perché quello era una sorta di “imprevisto”, rispetto al percorso preparato per me dalla società. Tant'è vero che non mi sarei spaventata affatto, qualche mese dopo, nel partire per andare a insegnare in una città del Nord con una sola valigia e con soldi presi a prestito da un'amica (non volli chiederli ai miei genitori).
A vent'anni, allora, sapevi press'a poco che vita ti aspettava, era una strada abbastanza chiara, pur con le sue asprezze e fatiche. Penso che ciò fosse in buona parte vero persino per molti degli emigranti poveri che dal Sud andavano al Nord del paese, o in Germania, o in altre zone d'Europa, a lavorare nelle grandi fabbriche.
I ragazzi di oggi invece si inventano vita e lavoro con modalità inedite, di cui molti di noi sarebbero stati incapaci.

Questo è vero, forse in diversa misura e con esiti in parte diversi, sia per i giovani che in Italia ci restano, sia per quelli “in fuga” (c'è da dire che molti di quelli che se ne sono andati non sembrano in fuga decisa, visto che si appassionano a quel che succede nel nostro paese, costruiscono all'estero strani movimenti per cambiarlo: l'Italia pare per loro un amante con cui non si è davvero chiuso, con cui resta viva la contesa). Quelli che restano sono costretti a difendere la propria sopravvivenza – non solo economica, anche psicologica, la loro dignità di cittadini – con mezzi che non erano certamente i nostri. Mi sembrano tanto lontani dalla mia giovinezza, e per certi aspetti più valorosi e disperati, o anche più leggeri, il popolo viola, o gli operai costretti a salire su strutture aeree per far sapere che protestano, o gli insegnanti che scendono in strada in mutande. È come se la lotta fosse uscita dal cuore dell'attività umana, dall'essere sociale delle persone, e si fosse tradotta in qualcosa di essenziale, di nudo, che non necessita di discorso e non può sviluppare discorso. D'altra parte insegnanti precari non hanno né il tempo né lo spazio esistenziale per ragionare sul loro lavoro, sui ragazzi reali, sui contenuti, sul senso...
E gli operai – sono tuttora più di 7 milioni - sono stati sbalzati fuori da quel ruolo centrale che parevano essersi conquistati tra la fine degli anni '60 e l'inizio dei '70 nella società, sono stati sbalzati ai margini da una ristrutturazione produttiva che non sono riusciti a prevedere e a proporsi di governare, da una mondializzazione che non è più il terzomondismo dei decenni gloriosi. Perché il terzo e il quarto mondo ci sono venuti a trovare. L'immigrazione non è una festa etnica, e neppure un “ciascuno con la sua 'cultura' e tutti contenti”: comporta fatica di comprensione, di cambiamento, salti della mente e del cuore, letture e discussioni, anche aperture teoriche, a cui non eravamo preparati.
Mi chiedo che cosa intendano i nostri figli quando parlano di “classe operaia”. Mi pare che intendano essenzialmente “poveri” e “sfruttati”. Alcuni pensano forse a un tradimento messo in atto da qualcuno contro il mitico movimento operaio, più che a un'insufficienza insita nello stesso movimento, una falla che lo ha reso debole – che ci ha resi deboli -, e lo ha travolto – ci ha travolti - in un tempo di convulsi cambiamenti.
Certe volte, quando sento persone della mia età e con esperienze simili alle mie dire “ai miei tempi sì che...”, penso che alla generazione dei figli abbiamo offerto, in sostituzione del futuro, carrettate di memoria, di memoria morta, perché non vivificata da una sguardo critico e pieno di tensione sul passato.

Oggi che il movimento sindacale rischia di commettere analoghi errori rispetto a questo popolo di precari, moltissimi esuli volontari o “vagabondi” del lavoro e dell'esperienza. Sono giovani che lavorano moltissimo, a volte con un'intensità e un'incertezza che noi non avremmo saputo sostenere.
Si dovrebbe tenere in gran conto il fatto che il precariato non è solo mancanza di lavoro fisso, ma anche esplosione di professioni, lavori nuovi, capacità di adattamento, esperienze, che per persone della mia generazione non erano neppure pensabili.
Quando penso alla capacità metamorfica di questi miei ideali e reali figli, che sanno fare altrettanto bene il cameriere e l'ingegnere, il traduttore e il professore, il distributore di pubblicità e il letterato, mi dico: sono proprio un'altra specie di homo sapiens! E per un verso mi paiono come “svuotati” di quel cuore identitario e politico che era il lavoro che durava tutta la vita: un lavoro che sarebbe restato press'a poco lo stesso e di cui quindi era possibile e stimolante cercare di cambiare la qualità. Per altro verso, mi sembrano circonfusi di una ricchezza, strani angeli abbastanza indecifrabili, perché non so come davvero uno si senta in una vita così. E se cerco di identificarmi, di mettermi nei loro panni, partendo necessariamente dalla mia esperienza, mi viene addosso un'ansia insopportabile per il futuro, ansia che in molti di loro – non in tutti, purtroppo – pare trasformarsi in ironia e in sfida.

Ieri era il trentesimo anniversario della storica marcia dei 40.000 quadri della Fiat contro il movimento sindacale: una marcia che utilizzava frutti avvelenati di cui parlavo sopra: terrorismo “rosso”, estremizzazioni, debolezze culturali, rifiuto di aprire gli occhi alle nuove tecnologie. E inaugurava il decennio degli anni 80, che sarebbe stato animato dallo spirito craxiano, dalla sostituzione dell'argomentazione con la battuta fulminante e stroncante e arrogante, dall'esaltazione del conformismo individualista, cosa opposta all'affermazione dell'individualità, del valore della difformità, della giustezza della ribellione contro qualsiasi chiesa che pretende di serrarti al suo interno (penso naturalmente a Camus). 

Ieri sera Massimo Giannini di Repubblica ha intervistato Guglielmo Epifani sulla situazione sindacale, politica, economica dell'Italia. Solo verso la fine gli ha chiesto della posizione del sindacato sui giovani ed Epifani ha ammesso che la Cgil non se ne è occupata a sufficienza, e ha sottolineato la precarietà cui sono soggetti. Nient'altro.

I due grandi servizi che giovani giornalisti vanno sviluppando su due quotidiani fratelli di nazioni sorelle – El País e La Repubblica –, di cui ho parlato nei precedenti post, dovrebbero essere oggetto di seminari sindacali, e invece ho paura che possano essere considerati soltanto interessanti inchieste sociologiche, se non testimonianze un poco naïf di vagabondaggi romantici, nuove vite di perdigiorni di novelli Eichendorff, e cadere così nel dimenticatoio. Questi giovani che raccontano la loro vita raminga, e pure i precari che sono restati in Italia, dovrebbero essere chiamati a riflettere, parlare, scrivere, costruire, a essere protagonisti di un'Italia e di un'Europa rinnovate. Sono una nuova classe che non ha l'appoggio di una teoria, penso certe volte che sarebbe bello se sorgesse fra loro e per loro una specie di nuovo Marx.

Se, anziché un'attitudine conoscitiva nei confronti di questo mondo giovanile distante mille anni dalla nostra giovinezza, che a volte attraversa il pianeta con una leggerezza che ci lascia senza fiato, li si considererà o vacanzieri romantici incapaci di lottare in loco contro le minacce alla democrazia presenti nel nostro paese, o cervelli in fuga di cui si dice solo che - chissà quando - dovranno pur ritornare, o semplicemente poveri disperati che necessitano di sicurezze e di vite simili a quelle che abbiamo avuto noi, si perderà un'altra occasione di affrontare e governare ciò che è nuovo e inedito. Può darsi però che siano loro a prendere con forza e ampiezza mentale in mano la vita propria e di tutti, anche quella di noi vecchi, con modalità che non immaginiamo, e a evitare così la catastrofe: che riescano a farlo con o contro la generazione a cui appartengo. Ho sempre pensato che il biologico non dovesse aver la meglio sul politico. Però siamo stati noi, la mia generazione, a selezionare e a escludere sulla base del biologico, dell'età anagrafica.
Quando giunsi a Bergamo dalla Puglia, 1000 anni fa, ero iscritta al Partito comunista, avevo 26 anni e i dirigenti anziani mi accolsero come se fossi arrivata a miracol mostrare. E oggi, come si accolgono quelli che hanno 25 o 30 anni e arrivano di lontano alla ricerca di un lavoro? Come allora?


Succede qualcosa di bello, in Italia: scuola di musica di alto livello per ragazzi rom

Forse con quello che ho detto finora non c'entrano – o forse c'entrano moltissimo - due fatti con cui concludo questa mia riflessione.

Bruno Zanolini, direttore del Conservatorio "Giuseppe Verdi", che, nonostante i disastri italiani, continua a essere una delle istituzioni culturali più importanti d'Europa, è uno studioso di grande prestigio. Arnoldo Mosca Mondadori è un editore discendente della famiglia Mondadori, e ha una casa editrice diversa da quella finita nelle grinfie del nostro premier. È un ragazzo di 39 anni, bello, cattolico di quel cattolicesimo aperto e generoso di cui ci siamo quasi scordati, era amicissimo di Alda Merini, e nel catalogo della sua Casa editrice ci sono diverse raccolte di questa poetessa. Ora, per un caso fortunato, è diventato presidente del Cda del Verdi. E guardate che hanno promosso, questi due, un'iniziativa da vantare in tutta l'Europa, se avrà successo. Naturalmente devono appoggiarsi ad associazioni cattoliche, tra le pochissime che lavorano con i rom.
Ci sarà qualcuno, forse, che storcerà un po' il naso: opere caritative! Paternalismo!
Che ben vengano iniziative caritative e paternalistiche di questo tipo!

In Conil de la Frontera, qualche giorno fa, c'era un signore rom che suonava il cimbalo, uno strumento parente, forse tra gli antenati del pianoforte, nel suo caso pieghevole, che riempiva di musica dolcissima e sonora il centro bianco del mio pueblo. Quando mi sono avvicinata, mi ha chiesto se mi piacesse Chopin e s'è messo a suonare una mazurka di quest'autore.
Qualche giorno dopo, a Cadice, in una delle splendide stradine del centro storico, ho sentito quella stessa musica che si spandeva dappertutto: ne ho seguita la traccia e l'ho raggiunta. Il musicista romeno- era ancora lui - suonava il suo strumento in una piccola piazza. L'ho salutato, mi ha sorriso. Gli ho chiesto che età avesse il suo strumento: mi ha risposto che era di suo nonno, era stato costruito tanto tanto tempo fa.

(fine) Per leggere il precedente post della serie, clicca qui.

Nessun commento:

Posta un commento