"...subito comprai due cavalli, di cui uno d'Andalusia della razza dei certosini di Xerez, stupendo animale, castagno d'oro; l'altro un hacha cordovese, più piccolo, ma eccellente, e spiritosissimo."

(Vittorio Alfieri, La Vita scritta da esso - 1790, 1803)

*************************
Naturalmente nessuna analogia fra me e Vittorio Alfieri. Riporto le sue parole perché mi sarebbe piaciuto vivere in Andalusia quando ci venne lui.

sabato 9 ottobre 2010

ARABISTI E ARABESCHI 19 – ETÀ DEGLI ABBASIDI 7 – Meditazione laica sulla morte


Abu-l-ala'al Ma'arri, poeta forse scettico in materia religiosa

Abu-l-ala'al Ma'arri (973-1057) nacque a Ma'arra an Numàn, in Siria. Benché, a quanto pare, a causa di una malattia abbia perso la vista nell'infanzia, fu iniziato alla conoscenza della tradizione poetica araba dal padre, che però morì quando il ragazzo aveva dieci anni. Pur cieco, viaggiò, soggiornó ad Aleppo e a Bagdad, dove conobbe importanti poeti e intellettuali.
Era solito dire che era recluso in una triplice prigione: del corpo, della cecità e della sua casa, da cui non riusciva ad allontanarsi.
Dopo un prolungato soggiorno a Bagdad, al Ma'arri ritornò nel suo villaggio, che non abbandonò più fino alla morte. Si chiuse al mondo, diventò vegetariano, scrisse raccolte poetiche, fra cui particolarmente importante è Siqt az Zand (La scintilla dell'acciarino), che comprende sette elegie, e la Risalat al gufran (Epistola del perdono), che racconta un viaggio immaginario nell'Aldilà: fu questo uno dei testi su cui Asín Palacios, un arabista spagnolo del XX secolo, di cui parlerò più avanti, si basò per ipotizzare una connessione fra la Divina Commedia e alcuni testi arabi; scrisse una raccolta di 10.000 poesie in cui dà prova di grande virtuosismo nell'uso e nella moltiplicazione delle forme metriche.
Tra i poeti arabi, al Ma'arri fu particolarmente amato da Francesco Gabrieli, in quanto poeta non prigioniero del conformismo religioso del suo tempo. Dice a proposito della poesia di al Ma'arri lo studioso italiano: “ L'Allàh musulmano non è del tutto assente, ma più spesso si dissolve sotto una critica corrosiva di tutte le religioni rivelate, che gli uomini si tramandano di generazione in generazione, supinamente...” (F. Gabrieli, La letteratura araba, Sansoni-Accademia 1967, pag. 143).
Jaime Sánchez Ratia, nei suo Treinta poemas árabes, traduce e riporta una di queste elegie, “un'elegia universale che si rivolge all'umanità intera, in versi che... sono diventati, tra gli arabi amanti della poesia, immortali e come incisi sulla pietra. La composizione, ampia e cadenzata, tesse una riflessione sul dolore e la morte...” (J.S.R., op,cit., pag. 147).
Riporto un passo breve dell'ampissima bellissima elegia. È un'intensa meditazione sulla morte, in cui certe affermazioni di fede (per esempio quella concernente l'inferno (casa di terrori) e il paradiso (dimora della felicità) appaiono quanto mai ambigue, la seconda forse sfuma nell'incredulità.

È il sogno della morte
[…]
Calpesta leggermente, perché non credo che questa sia
la pelle della terra
bensì la stratificazione di tutti questi corpi,
e la maledizione cada su di noi
se manchiamo di pietà verso gli avi, anche quelli di un tempo remoto,
per quanto vecchio sia il tempo che ci separa da loro.
Cammina piano piano, se puoi,
non c'è alterigia che possa qualcosa,
sugli strati di fedeli.
Quante tombe si sono trasformate in una sola!
Che ride del cumulo dei nemici di un tempo!
E sepolti, su resti di sepolti,
lungo le età e i tempi.
Ma chiedi alle Pleiadi,
quante tribù osservarono,
a quante genti diedero conforto,
quante volte salirono, al morire del giorno,
e diedero luce a viandanti notturni.
Che tedio, la vita intera! Non mi stupisce più nulla,
se non che ci sia qualcuno che aneli a giungere alla vecchiaia,
e dire che all'ora della morte, la tristezze è il doppio
dell'allegria che c'era al momento della nascita.
Furono creati gli uomini per l'eternità
e devia il popolo che li annovera fra i morti:
sono semplicemente condotti da una dimora di travagli
a un'altra di terrori, o a quella della felicità.
Ed è il sogno della morte una testata,
che permette al corpo di riposare,
e la vita è solo insonnia.
[…]


Un discorso assai incompleto

Mi fermo qui con l'Età degli Abbasidi. Ci sarebbero altri interessantissimi versi da proporre, ma non mi è consentito saccheggiare il bel libro di Jaime Sánchez Ratia più di quanto ho fatto.
Per chi voglia approfondire, comprandoselo, consiglio di leggere prima di ogni cosa tutta l'elegia di cui ho portato sopra un brano, e poi la splendida, per noi stranissima e difficilissima, oltre che lunghissima, cásida di al Buhturi, El iwan de Ctesifonte. Come spiega Sánchez Ratia, “A circa 40 chilometri a sud-ovest di Bagdad e sulle sponde del Tigri si levano rovine sconsolate e solitarie, presidiate da un enorme arco di mattoni di terracotta di grandi dimensioni. Là, tra muri in rovina che appena superano la vetta dei tells – quei mucchi di terra battuta che rivelano la presenza di una città – giacciono i resti di Ctesifonte, l'antica capitale dell'Impero Sassanide, che i greci chiamarono Seleucia e gli arabi, ingannati dalla dispersione e dalla enorme estensione degli edifici, Al Mada'in, che significa 'le città'. Bisogna dire che gli arabi avevano abbastanza ragione, infatti Ctesifonte non a caso è la somma di varie città. Si dice che fu Alessandro Magno a fondare la prima di esse...” (J.S.R., op.cit., pag. 112).
Il poeta va a queste rovine e... il resto lo leggerà - con fatica – chi sarà tanto interessato da procurarsi il libro.

Dalla prossima volta, inizierà il tratto di percorso sulla poesia arabo-andalusa.

Se vuoi leggere il post precedente della serie, clicca qui.

Nessun commento:

Posta un commento