"...subito comprai due cavalli, di cui uno d'Andalusia della razza dei certosini di Xerez, stupendo animale, castagno d'oro; l'altro un hacha cordovese, più piccolo, ma eccellente, e spiritosissimo."

(Vittorio Alfieri, La Vita scritta da esso - 1790, 1803)

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Naturalmente nessuna analogia fra me e Vittorio Alfieri. Riporto le sue parole perché mi sarebbe piaciuto vivere in Andalusia quando ci venne lui.

domenica 25 aprile 2010

ARABISTI E ARABESCHI 6 – POESIA PREISLAMICA 2 - Un re vagabondo, un guerriero nemico e un poeta cristiano



UN RE POETA, IMRU L’QUAIS
Imru l’Quais (VI secolo) apparteneva a un nobile clan, i Kinda. Suo padre, un re locale che aveva cercato di unificare una parte delle genti arabe, era stato ucciso da membri di tribù nemiche e il poeta, che aveva condotto una giovinezza dissoluta e girovaga, e fu chiamato anche “re errabondo”, era giunto fino a Bisanzio per chiedere aiuto all’imperatore Giustiniano: i bizantini e i sassanidi si contendevano a quel tempo l'influenza sulla regione. La leggenda dice che fu lo stesso imperatore a fare uccidere Imru l’Quais, che aveva cercato di sedurgli la figlia. Si narra addirittura che l'imperatore gli avrebbe mandato una tunica avvelenata per ammazzarlo e poi, pentito, gli avrebbe fatto costruire un mausoleo. Venne ricordato perciò anche con il soprannome “l'ulceroso”. Per quel che si sa, leggende a parte, morì davvero nel viaggio.
Ci informa Francesco Gabrieli: “Un detto attribuito al Profeta, poco amico dei poeti, dichiara Imru l'Qais loro duce sulla via dell’inferno e conferma con questo primato a rovescio il primato cronologico e artistico che ha questa singolare figura, la prima storicamente afferrabile dell’antica letteratura araba.” (La letteratura araba, Sansoni Accademia 1967). Imru l'Qais è il più famoso tra i poeti che scrissero mu'allaqāt.

La ragazza della tribù nemica

Di seguito, un passo della sua mu'allaqā, in cui Imru l’Quais racconta di aver sedotto la ragazza di una tribù nemica:

Superai, giungendo fino a lei, le sue guardie e suoi parenti,
desiderosi, se avessero potuto darmela nel silenzio, della mia morte,
mentre le Pleiadi si mostravano nel cielo
come i segmenti di una collana di gemme.
Io arrivavo, e lei già si era tolta le vesti per andare a dormire,
aveva indosso solo una tunica leggera. Era dentro la tenda
e diceva: “Giuro che non hai scuse.
E non credo che la tua follia ti abbandoni.”(1)
Uscimmo, e lei agitava dietro di noi,
sulle nostre orme, il lungo strascico di una tunica ricamata.(2)
E quando superammo il limite dell'accampamento e ci accolse
una limpida valle tra colli e pietraie,
mi avvicinai il suo capo tenendola per le trecce,
la vita sottile e delicata, ben torniti i polsi,
il seno levigato come specchio,
primizia candida, con la lucentezza del grano,
percorsa da acque di cristallo proibite.
Mostrava, sottraendosi un fresco volto,
con lo sguardo di una femmina di Wağrah con il piccolo;(3)
che collo di gazzella, di perfette proporzioni e ben tornito!
Una folta chioma nera le adornava le spalle, fitta come un pendulo grappolo di palma.
Le sue trecce erano raccolte in alto, ora strette, ora lasciate sciolte, scendevano.
Il fianco flessuoso come stelo di una pianta carica d'acqua e docile.
Frammenti di muschio cospargevano il giaciglio su cui ancora riposava, a mezzogiorno,
discinta, fino a tardi nel sonno, pigra, smemorata,
e porgeva le sue morbide dita tenere
come larve di Zuby o duttili  fibre di stuzzicadenti,(4)
Questa ragazza illumina le ombre della sera
quale lampada del solitario monaco nella notte.

(traduzione mia da Corriente Córdoba, Monferrer Sala, Las diez Mu'allaqat, cit.)


Qualche rapida necessaria spiegazione: 1- le parole che la ragazza rivolge al poeta: “Giuro che non hai scuse./E non credo che la tua follia ti abbandoni.” sono piuttosto oscure e ambigue: un rimprovero all'uomo che si è introdotto nella sua tenda? Anche il traduttore nella nota non giunge a una spiegazione univoca; 2 - la ragazza spazza la terra con lo strascico della sua tunica per cancellare le orme del passaggio suo e dell'amante; 3- “una femmina di Wağrah con il piccolo” è una mucca con il vitello: questa e le successive similitudini, preziose per un beduino del deserto di quel tempo, a noi paiono strane; 4- “dita tenere/come larve di Zuby o tenere fibre di stuzzicadenti”: anche queste similitudini appaiono strane a noi, ma non ai contemporanei di Imru-l-Quais.

In un altro passo della mu'allaqā, Imru-l-Quais, per compiacere alcune donzelle, ammazza la sua cammella e gliela dà da mangiare: non ci ricorda un po', questo fatto, la storia di Federigo degli Alberighi, che ammazza il suo falcone per darlo da mangiare all'amatissima monna Giovanna?


Il destriero

Ed ecco i versi del poeta-re vagabondo che parlano del suo destriero:

Io parto al mattino, quando gli uccelli sono ancora nei lor nidi,
con un destriero di corto pelo, vincolo delle fiere fuggenti, di salda struttura,
pronto all'attacco e alla fuga, avanzante e arretrante del pari, simile a blocco di roccia che il torrente trascini dall'alto.
Baio, fa scivolare giù dalla groppa la gualdrappa di feltro, come sulla pietra liscia scivolano le gocce di pioggia.
Ardente in sua magrezza, il battere del suo trotto, quando ferve il suo ardore, sembra il ribollir di una pentola.
Corridor generoso, allorché anche i buoni trottatori stanchi sollevano la polvere dalla piana battuta.
Fa scivolar giù di sella il leggero garzone inesperto, e porta via le vesti nel galoppo al grave cavaliere provetto.
Veloce qual trottola di fanciullo, che con ambo le mani vi fermò sopra il doppio filo congiunto.
Ha fianchi di gazzella e gambe di struzzo, corsa sfrenata di lupo e balzo di volpacchiotto.
Di costole possenti, se lo osservi di dietro ei colma l'interstizio delle zampe con una coda fitta, giungente quasi a terra in perfetto appiombo.
I suoi due lati del dorso, quando egli procede, paion la pietra ove la sposa stempera il profumo, o quella ove si pesta la coloquintide.
Il sangue delle fiere fuggenti pare sul suo petto succo di « henné » su pettinata canizie.
Ci si parò innanzi un branco di vacche selvatiche, simili a vergini intorno a un idolo, in manti dal lungo strascico.
Esse arretrarono, simiglianti a un vezzo d'onici al collo d'un nobil garzone, che conta nella tribù molti zii paterni e materni.
Il destriere ci fece d'un balzo raggiungere le prime del branco, lasciandosi indietro le arretrate, in gruppo ancor non disperso.
E abbatté insieme un toro e una vacca selvatica, né fu asperso di sudore sì da doversi lavare...
Tornammo, e l'occhio ammirante non arrivava ad abbracciarlo tutto, e quando si levava in alto scendeva a mirarne il basso.
Ei trascorse la notte sellato e imbrigliato, ritto sotto i miei occhi, non lasciato in libertà.

(da Francesco Gabrieli, Virginia Vacca, Antologia della letteratura araba, cit.)

ABÌB IBN AL-ABRAS

Fu poeta contemporaneo e nemico di Imru l’Quais, appartenne alla tribù che gli aveva ucciso il padre Hugr. La sua mu'allaqā presenta, rispetto alle altre, anomalie metriche, e fa parte delle tre che alcuni non annoverano fra le più importanti, canoniche. Riporto di seguito qualche passo su aspetti della natura.

L'aquila

È`questo un celebre passo della mu'allaqā, in cui il poeta racconta l'assalto di un'aquila a una volpe, a cui ha assistito nel corso delle sue peregrinazioni.

...come un'aquila predace, nel cui nido si accumulano le viscere delle sue vittime.
Essa ha pernottato tormentata dalla fame su un tumulo di pietre, come una vecchia deserta,
In una mattina gelida la brina le goccia giù dalle penne.
Di lungi ella ha scorto una volpe, di là una sterila piana.
Batte le ali e si scuote, vicina a balzare.
Quindi scatta bramosa verso la preda, e planando le si avvicina.
L'altra striscia, sentendola avvicinare, col bianco dell'occhio stravolto nel guardare all'insù,
Alza la coda sbigottita al fruscio delle sue ali, con l'atto di chi è sgomento.
E quella la raggiunge e l'atterra, e la preda angosciata le è sotto.
La prostra e l'abbatte , mentre le pietre le lacerano il muso.
Stride la volpe, con l'artiglio dell'aquila nel fianco: un colpo di rostro inesorabile le buca il petto...

(Francesco Gabrieli, Letteratura araba, cit..)

Nuvola temporalesca

Questa descrizione di un temporale è tratta da un'altra poesia di quest'autore.

Ha abbeverato la terra di Rabàb una nube dai fianchi echeggianti di tuoni, dai lampeggianti baleni.
Nera, sospinta dallo zefiro a notte, da cui lo scirocco spreme l'acqua,
come il servo munge le sue cammelle, finché fluiscono le sue vene.
Si avvicina sì da illuminare dei macchioni col suo margine bianco, infiammato dall'incendio dei lampi.
Allorché non arriva più a reggere l'acqua che contiene, le spira dietro un vento del Yemen che la sospinge,
e il vento del sud ne scioglie le bocche, ed essa vien giù a rovescio, spezzata ogni fessura...

(da Francesco Gabrieli, Virginia Vacca, Antologia della letteratura araba, cit.)

ADI IBN ZAYD

Visse nel VI secolo, fu poeta cristiano proveniente dal piccolo regno arabo Lajmí, della Mespotamia meridionale. Visse tra il suo luogo di origine e Ctesifonte, capitale dell'impero sassanide e fu fra i primi poeti in bilico fra due culture, l'araba e la persiana: quindi fu uno dei primi poeti non beduini dell'epoca preislamica. A lui si attribuiscono circa 900 versi, probabilmente apocrifi, di vario argomento, anche poesie bacchiche.
Pare che il re di Hira, Nu'aman III, l'abbia incarcerato e fatto uccidere per uno scritto che lo offese.
Si racconta che molto prima di questo tragico epilogo, un giorno che Nu'aman III passeggiava in compagnia del poeta, giunsero a un cimitero che si trovava appena fuori dalla città. Adi domandò al re: “Lo sai che dicono queste tombe?” Il re rispose:”No”. Allora, Adi recitò questa poesia, una meditazione sulla morte di grande potenza, e il re, dopo averla ascoltata, si convertì.
L'intensità di questa meditazione sulla morte è legata anche al fatto inconsueto che sono le tombe a parlare. Mi ricorda, naturalmente in modo assai parziale, un filo analogico esile e sottile, l'operetta morale di Leopardi, Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie.

Quel che dicono le tombe

Chi ci vede, dica alla sua anima
che è prigioniera degli artigli della morte,
e dei giri della fortuna nulla resta,
neppure ciò che trascinano con sé le aspre montagne.
Quanti, giunti con le loro carovane, fecero inginocchiare qui i loro cammelli
per bere il vino e l'acqua cristallina,
nel tempo in cui le botticelle avevano ancora i tappi
e i nobili destrieri galoppavano coperti di gualdrappe.
Un tempo popolarono queste contrade con la vita deliziosa,
fiduciosi nella propria sorte, padroni di sé.
Dopo, in pieno meriggio, li spezzò il destino,
certo, è così che il tempo la fa finita con gli esseri umani,
così il destino colpisce il giovane forte e valoroso,
e lo manda oltre la vita, da una condizione a quella opposta.

(da Jaime Sánchez Ratia, Treinta poemas árabes en su contexto, Hiperión 1998-2006, Madrid)


Il precedente articolo sul tema:


Poesia araba 5 - Epoca preislamica 1- Le mu'allqāt

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