"...subito comprai due cavalli, di cui uno d'Andalusia della razza dei certosini di Xerez, stupendo animale, castagno d'oro; l'altro un hacha cordovese, più piccolo, ma eccellente, e spiritosissimo."

(Vittorio Alfieri, La Vita scritta da esso - 1790, 1803)

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Naturalmente nessuna analogia fra me e Vittorio Alfieri. Riporto le sue parole perché mi sarebbe piaciuto vivere in Andalusia quando ci venne lui.

venerdì 23 aprile 2010

ARABISTI E ARABESCHI 5 – POESIA PREISLAMICA 1 – LE MU'ALLAQĀT

L'età preislamica in arabo prende il nome di jiahiliyyah, età dell’ignoranza, della barbarie. Come spiega Jaime Sánchez Ratia, l'età “della sproporzione fra offesa e rappresaglia”.
Il secolo precedente l’avvento di Maometto fu notevolissimo per lo sviluppo della poesia araba, la cui maturità e complessità sia tematica sia stilistica stupisce gli studiosi..
Per raccontare aspetti essenziali di questa grande stagione della poesia araba, farò riferimento al libro Le dieci  mu'allaqāt (Hiperión, Madrid 2005), poemetti tra i 50 e i 100 versi, senza dubbio le più importanti composizioni poetiche dell'età che precedette la venuta del Profeta, tradotti dall'arabista spagnolo Federico Corriente Córdoba, in collaborazione con Juan Pedro Monferrer Sala; le mu'allaqāt in traduzione sono precedute da un'importante introduzione sul contesto storico, sulla lingua, sulle forme poetiche, e da note sui singoli autori. E poi ricorrerò anche a una bella antologia di Francesco Gabrieli, Virginia Vacca, Antologia della letteratura araba, Edizioni Accademia, 1976; e alla Letteratura araba di Francesco Gabrieli, Sansoni, Accademia, 1967: Gabrieli fu uno dei maggiori arabisti del nostro passato, e tradusse alcune importanti opere del Medioevo. I due libri che ho appena citato, per quanto ne so, non sono stati recentemente rieditati (li comprai anni fa in un negozio di libri usati), ma li ho visti tuttora indicati in alcune università come testi per gli esami!

La società in cui nasce la poesia preislamica è di beduini nomadi: le famiglie sono riunite in tribù, “il vincolo di sangue, vero o presunto... crea la solidarietà tra i membri della tribù e l'onore e il disonore di ciascun membro si ripercuote inevitabilmente su tutto il gruppo […]. L'obbligo più grave che ricade sul nomade è quello di vendicare il sangue, quando ci sia motivo per ciò [...].In quest'ambiente si definiscono le caratteristiche morali del beduino: crudeltà e violenza, per la difesa del suo unico mezzo di vita e del suo unico possesso, il bestiame; rapina per sottrarlo agli altri, solidarietà nei confronti del suo gruppo, unica garanzia di sopravvivenza per l'individuo in un ambiente spietato; identificazione con la natura, rude ma lirica, come in tutte le steppe in cui la solitudine genera melanconia e intensità nel sentire […]; forte patriarcato in una gerarchia tribale, che garantisce l'unità di comando e di giudizio, e il successo nella lotta per la vita, spesso condotta con armi […]. Persino nelle sue credenze, il nomade è diverso dal contadino sedentario, che si mostra, in fatto di religione, interessato, credulo fino all'idiozia, prende in giro il clero della propria religione, in cui non ha fiducia, però è timoroso per i suoi poderi, e tende sempre a rendere concreti e ad antropomorfizzare i suoi dei che hanno sede nella madre terra che gli dà da vivere e in oggetti che si possono toccare; il nomade, al contrario, è più incline alla metafisica, crede in un Essere soprannaturale, ineffabile e astratto, la cui essenza si connette alle cose materiali solo in senso simbolico, un Essere potente, che conosce quello che è nascosto agli uomini, signore assoluto delle vite e delle fortune, pur se in ultima istanza giusto nei suoi disegni imperscrutabili, in genere disinteressato alla condotta umana, che deve regolarsi non sulla speranza di un premio ultraterreno, ma per rispetto verso se stessi e per la reputazione di se stessi e dei propri discendenti.” (Corriente, Córdoba, Monferrer Sala, op.cit., trad. mia). Ho riportato questi passi, in cui pur non manca qualche venatura positivistica, perché mi sono sembrati suggestivi e utili a entrare in questa poesia e anche, per contrasto, nella successiva stagione. Non ci evocano un po', queste parole, il Canto notturno di un pastore errante per l'Asia di Giacomo Leopardi?


È dubbio se le poesie e i poemetti dell'età preislamica fossero stati scritti all'origine oppure composti e tramandati oralmente da rapsodi e stesi per iscritto solo a partire dall’VIII secolo, cioè dopo l’avvento dell’Islam. Certamente, avvertono i curatori del libro, hanno subito trasformazioni nel tempo, per mano di scribi.

Non si sa neppure perché i dieci poemetti (secondo alcuni solo sette) furono chiamati “mu'allaquat”; una leggenda la fa risalire alla radice ºlaqa, che significa “appendere”, “collocare”. Tra gli eventi “mondani” più importanti del VI secolo arabo, c'era la gara poetica annuale che si teneva in tempo di pellegrinaggi nei pressi del santuario meccano della Ka'ba, la pietra nera venerata in epoca preislamica e pure dopo l'avvento dell'Islam. Le composizioni dei vincitori sarebbero state ricamate su panno prezioso in lettere d'oro e appese sui muri dell'edificio della Ka'ba. L'unione di stoffe di tutti i tipi e filo d'oro, e anche della scrittura e dell'oro, è tuttora riproposta continuamente nel mondo arabo e anche del Maghreb. Ne riparleremo ancora. Però, dicono i curatori del libro da cui ho tratto le altre citazioni – e questa è la cosa più interessante – già in tempi preislamici, quindi di politeismo, era vivo il contrasto fra poeti e uomini di religione: “...è difficile credere che i gelosi guardiani della Ka'ba [...] avrebbero tollerato , tra le loro barbe e in un luogo santo, la glorificazione di opere spesso irrispettose e irridenti alla religione di individui che erano considerati davvero antisociali indesiderabili nell'ambiente dei conservatori.” Questo contrasto fra cultura “laica” o comunque spregiudicata, spesso prossima alla miscredenza, di cui è espressione gran parte della poesia, e rigorismo religioso, è molto antico, risale a tempi precedenti la venuta del Profeta: destinato a durare nei secoli, fino ai nostri giorni, e a riaccendersi con la rinascita dell'integralismo dell'ultimo trentennio, dopo un periodo in cui pareva che anche i popoli musulmani si avviassero verso una visione più libera. (Sui nuovi integralismi, non solo musulmani, anche cristiani, ha scritto libri di grande respiro Gilles Kepel).

Al contempo, fino a oggi, gli arabi e anche i musulmani non arabi vantano le mu'allaqāt come fondamento nobile della loro cultura e di quella cosa che chiamiamo “identità”. Insomma, mi sembra che un poco assomiglino ai cristiani, soprattutto a quelli della chiesa di Roma, che in “opere d'arte” accettano nudità dei corpi, spregiudicatezza, e tante altre cose che censurerebbero nella vita, almeno formalmente e cercando di salvare le apparenze.

Le mu'allaqāt sono almeno in teoria formate da parti canoniche, ma le “regole” sono interpretate in modo molto libero dai poeti, e perciò non le menziono.

Dal punto di vista metrico, sono “casidas” (lo dico in spagnolo), componimenti dai versi molto ampi formati da due emistichi. Tutti i versi rimano fra loro. Non si hanno enjambement, vale a dire che la frase finisce con il verso, e quindi il discorso risulta spezzato in brevi segmenti, più spezzato di quanto in genere sia nella poesia che siamo soliti leggere. Quella araba antica è una metrica quantitativa: mi è stato regalato in fotocopia un libro in spagnolo su questa metrica, difficilissimo, stampato in Marocco all'inizio del Novecento Non ho avuto ancora la forza di affrontarlo, ma ho sentito recitare una casida: un ritmo ampio, una cadenza davvero solenne, piena. Non so se sia legittima, l'associazione che sto per fare: penso ai poemetti in alessandrini del Medioevo italiano, ciascun verso due emistichi, spesso gruppi di versi che rimano fra loro, Giacomino da Verona, Cielo d'Alcamo...

Molte cose dette fin qui sulle mu'allaqāt possono valere anche per altro tipo di composizioni dell'epoca preislamica. Infatti, oltre le mu'allaqāt, sono arrivati fino a noi divani, canzonieri e altre composizioni di quel periodo.

Alla prossima, i testi.

Il precedente articolo sul tema:
Arabisti e arabeschi 4 - La lingua e i contesti

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