"...subito comprai due cavalli, di cui uno d'Andalusia della razza dei certosini di Xerez, stupendo animale, castagno d'oro; l'altro un hacha cordovese, più piccolo, ma eccellente, e spiritosissimo."

(Vittorio Alfieri, La Vita scritta da esso - 1790, 1803)

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Naturalmente nessuna analogia fra me e Vittorio Alfieri. Riporto le sue parole perché mi sarebbe piaciuto vivere in Andalusia quando ci venne lui.

giovedì 29 aprile 2010

ARABISTI E ARABESCHI 7 – POESIA PREISLAMICA 3 - Il poeta bandito e il poeta cavaliere

ASH-SHANFARA
Ci sono stati tramandati di questo poeta alcuni frammenti e due composizioni ampie: la più famosa è questo “Carme in rima lām degli Arabi". C'è il dubbio che non sia autentica, che sia stata scritta da altra persona e attribuita a questo poeta due secoli dopo l'avvento dell'Islam, falsificazione, pare, abbastanza normale a quel tempo. È comunque un canto interessante, racconta la condizione di un uomo espulso (l'espulsione dalla tribù poteva essere una punizione per l'individuo che avesse trasgredito alle leggi interne) o allontanatosi per sua scelta . Il titolo assegnato al canto è dei traduttori.

Il canto del bandito

Uomini della mia tribù, fate drizzare i petti delle vostre cavalcature e partite, ché io verso altra gente che non verso voi son più incline.
I necessari preparativi son stati compiuti, e la notte è di luna, le cavalcature sono state bardate e i basti serrati pel viaggio.
Nella terra c'è bene un rifugio che ripari l'uomo generoso dall'offesa, e un ritiro per chi tema l'odio dei nemici.
Per la tua vita, non è angusta la terra, per un uomo che sappia cauto incedere la notte, tra il desiderio e il timore.
A me sono compagni in vostro luogo uno sciacallo dalla marcia veloce, una liscia pantera pezzata, e una iena arrancante dall'irta criniera.
[...]
Io parto al mattino dopo un magro pasto, così come parte un grigio-argenteo sciacallo dai magri fianchi, che passa di deserto in deserto:
incede errando affamato contro vento, calando sui fondovalle in trotterellante corsa,
e quando il cibo lo distoglie da dove prima lo cercava, egli
lancia un appello, e gli rispondono gli smagriti suoi simili; sottili come falce lunare, bianco-grigi nei volti, vibranti come frecce agitate da un giocatore di « maisir » (1),
o come sciame d'api fatto alzare agitato dalle bacchette di ricerca del miele, piantate dal cercatore che sale sul monte;
dalle ampie bocche spalancate, i cui angoli sembrano fessure di bastoni, digrignando i denti e ostilmente aggressivi.(2)
Ulula allora lo sciacallo e ululano i suoi compagni per il piano deserto, come fossero donne orbate dei figli che fan lamento su un'altura,
e battono insieme in ritirata veloce, tutti alleviando con la pazienza l'angustia latente dell'animo.
Ho familiare la faccia della terra quando la prendo a giaciglio, col ricurvo mio dorso cui rilevano le magre sporgenze delle vertebre,
e adatto a cuscino un braccio scarnito, le cui giunture sembrano
dadi eretti, gettati da un giocatore.
Io sono uno perseguitato da delitti che si giocano a « maisir » la sua vita, a chi di loro per primo essa sia destinata qual vittima.
Dormono essi, quando egli dorme, con occhi svegli un fugace sonno, affrettandosi a suo danno.
Io sono il compagno di affanni che non cessano dal visitarlo, con la frequenza della quartana e ancora più gravi.
Quando arrivano, io li allontano, ma essi ritornano venendo dal basso e dall'alto.
E se tu mi vedi, o donna, abbrustolito come struzzo, all'erta, scalzo, senza calzati,
sappi che io son l'uomo della pazienza, che rivesto la mia armatura su un cuore qual di bastardo di
iena, e di fermezza mi calzo.
[...]
Quante sinistre notti, in cui l'arco spezzato e arso serve a riscaldare il suo padrone, assieme alle asticciole che gli facevan da frecce,
io sono uscito dall'avventura, tra l'oscurità e la pioggerella, battente, avendo a compagni disperata fame e congelamento, paura e brivido di terrore,
e ho vedovato donne, e resi orfani bimbi, e sono tornato così come ero partito nel pieno tenebrore notturno.
[…]









Quante giornate di canicola, dal barbaglio fondente, in cui le vipere si torcono sui ciottoli arsi dal sole,
ho affrontate col viso senza riparo alcuno né velo, fuorché una bella veste rigata, ma ridotta a brandelli,
e una fitta capigliatura spiovente, dai cui lati il vento quando soffia fa svolazzare ciocche come feltro, spettinate,
da lungo tempo non tocche da unguento né spidocchiate, con fitti grumi di disseccata lordura, priva da un anno di lavanda!
Quanti altipiani deserti come convessa superficie di scudo ho io traversati, quali non vengon battuti da alacri gambe di viaggiatori,
e io li ho dominati dal principio alla fine, spiccando su una scoscesa altura, ora accosciato ora dritto.
Attorno a me pascono le fulve capre montanine, come fanciulle ricoperte da vesti con strascico,
e posano a me d'intorno nel vespro, come io fossi uno stambecco balzano dalle ricurve corna, che si arrampica a inaccessibil rifugio per un pendio montano.

(da Francesco Gabrieli, Virginia Vacca, Antologia della letteratura araba, Edizioni Accademia, 1976)

Due spiegazioni: 1- il « maisir » era un gioco d'azzardo con cui i beduini del tempo si spartivano le prede e poteva diventare duro e selvaggio; 2- l'espressione “dalle ampie bocche spalancate, i cui angoli sembrano fessure di bastoni, digrignando i denti e ostilmente aggressivi” si riferisce a “i suoi simili” che si trova qualche verso prima.


'ANTARA IBN SHADDAD


Un poeta “mitico” è Antara, un cavaliere che venne pure chiamato l'“Achille arabo”. È tuttora molto noto perché sulla sua figura, analogamente a quanto tanto tempo prima era avvenuto con il mitico re mesopotamico Gilgamesh, si sviluppò nel tempo un'epopea e narrazioni popolari. La leggenda vuole che questo poeta fosse figlio di una schiava etiope, e si fosse guadagnato con il suo valore il riconoscimento da parte del padre arabo (molto spesso le persone di pelle nera erano fatte schiave dagli arabi, che le consideravano di “razza” inferiore: ci sono esempi di questo anche nei racconti introduttivi de Le mille e una notte). Antara impersona il cavaliere valoroso, e racconta nella sua mu'allaqā di un amore proprio da antico cavaliere.
Quella che segue è una scena di battaglia.

Il destriero trafitto

«Antara» gridavano, e le lance fitte nel petto del mio morello parevano corde d'un pozzo.
Continuai a incalzarli con la gola e col petto, sinché fu tutto coperto d'un manto di sangue.
Ei distorse allora il petto dai colpi delle aste, e si dolse con me, con una lacrima e un fremito di dolore.
Se avesse saputo usare la parola, si sarebbe lagnato, e la parola mi avrebbe rivolta.

(Francesco Gabrieli, Letteratura araba, cit.)

Mi viene in mente, a questo punto, la storia di un cavaliere francese, vissuto più di mezzo millennio dopo questi poeti avventurieri beduini: ovviamente non pretendo di stabilire nessuna dipendenza dell'immagine del cavaliere cristiano dai guerrieri e banditi del mondo arabo. Però penso che possa essere divertente il confronto fra personaggi appartenenti a società tanto diverse e lontane. Sto parlando di un racconto di formazione e della vita di un cavaliere medievale dovuto agli studi e alla penna di George Duby: Guglielmo il Maresciallo, L'avventura del cavaliere, Laterza, da cui è stato tratto anche un racconto per ragazzi.

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