"...subito comprai due cavalli, di cui uno d'Andalusia della razza dei certosini di Xerez, stupendo animale, castagno d'oro; l'altro un hacha cordovese, più piccolo, ma eccellente, e spiritosissimo."

(Vittorio Alfieri, La Vita scritta da esso - 1790, 1803)

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Naturalmente nessuna analogia fra me e Vittorio Alfieri. Riporto le sue parole perché mi sarebbe piaciuto vivere in Andalusia quando ci venne lui.

lunedì 19 aprile 2010

ARABISTI E ARABESCHI 4 – LA LINGUA E I CONTESTI

Per comprendere non solo l'importanza dei libri di Jaime Sánchez Ratía e di altri orientalisti che si sono staccati e si staccano dalla pigrizia dominante, ma anche la difficoltà di accostarsi a questo immenso patrimonio poetico, che in massima parte è sconosciuto sia a noi europei, sia a buona parte delle popolazioni dei paesi arabi e del Maghreb, bisogna tener conto di alcune caratteristiche della lingua araba, forse note ai più, ma non a tutti.

L'arabo classico, usato tuttora nella maggioranza degli scritti, anche giornalistici, oggi non si parla da nessuna parte. O meglio, viene talvolta usato come lingua sovranazionale fra personalità dei paesi arabi, e anche in ambito religioso, in alcune trasmissioni e notiziari radiofonici e televisivi. Nei paesi arabi e anche nel Maghreb si parlano dialetti che per lo più non vengono scritti (ci sono poche eccezioni su cui non mi soffermo). Perciò una persona che nei paesi arabi o nel Maghreb non sia andata a scuola o non abbia frequentato per motivi religiosi una scuola coranica, non conosce l'arabo classico che, con le sue diverse sfumature e varianti, viene da molti secoli usato solo per scrivere. Si tratta di una lingua antica, ma non morta, essenzialmente sillabica, codificata dal Corano (l'arabo coranico, a differenza di quello degli altri scritti, è tutto vocalizzato!), in parte evolutasi e trasformatasi nel tempo. Chi vive nei paesi arabi, si trova nella situazione in cui ci troveremmo noi che parliamo lingue neolatine, se per leggere e scrivere dovessimo imparare il latino che non è la nostra lingua madre, anche se con quest'ultima, che si usa nel discorso quotidiano, ha molti tratti in comune. In più, il latino che molti di noi hanno studiato è, nelle sue linee essenziali, quello del I secolo a.C. e del I sec. d.C. (se capita di leggere scritti anteriori e posteriori, si è in genere aiutati da robusti apparati di note); chi si mette a studiare l'arabo classico deve invece fare i conti, e solo con le proprie forze, con tradizione e trasformazioni che durano da 1500 anni e continuano a vivere.
Per queste e per altre ragioni, la traduzione delle antiche poesie arabe, a quanto dicono i pochi che si avventurano in quest'impresa, è un percorso accidentato, pieno di dubbi e di misteri, alcuni dei quali sono destinati a restare tali.


Questa lingua ha un fascino particolare, per me , soprattutto per la “logica” che la governa: parlo naturalmente di impressioni soggettive, non sono in grado di condurre in proposito un discorso generale e scientifico. So bene che in tutte le lingue di cui ho avuto notizia – naturalmente europee – da una radice si sono “generate” tante parole. Però nell'arabo classico la conoscenza delle parole, anche per quel che riguarda la consultazione del dizionario, è organizzata rigidamente per radici. Sotto una radice, il più delle volte verbale, compaiono nel dizionario verbi di diverso tipo, significato e forma, aggettivi, nomi, avverbi. Le radici sono riconoscibili solo se si sa come “estrarle”, liberandole dalle diverse variazioni vocaliche e pure, in parte, consonantiche, oltre che da prefissi, suffissi, desinenze dovute alla flessione. Si ha così la sensazione che le radici siano vermiciattoli capaci si assumere molti aspetti, che vivono nel fondo del passato, oppure anime delle parole e dei pensieri umani, e quindi che attraverso questa lingua si abbia un collegamento diretto, quasi un cortocircuito, con archetipi di un tempo profondo, che si nascondono dietro apparenze superficiali, multiformi e fallaci. Il principiante che all'inizio si trova di fronte al dizionario come di fronte a coperchio che serri un tesoro proibito, quando comincia a trovare il modo per sollevarlo e per individuare e acciuffare radici che si mascherano in molti modi complicati è proprio contento.

Qualche cenno sulla periodizzazione comunemente accettata relativa ai contesti in cui si sviluppò la poesia in lingua araba (utilizzo per lo più i nomi attuali delle diverse zone).

1- Epoca preislamica: nel VI secolo si sviluppò un “movimento poetico” nella penisola arabica; le composizioni di questo periodo sono soprattutto poemetti ampi, scritti da poeti beduini del deserto.

2- Età di Maometto, e poi degli Omeyyadi, compresa fra il VII secolo all'VIII. Gli arabi conquistarono la Siria, la Palestina con Gerusalemme, la Mesopotamia persiana, l'Egitto con Alessandria, la Persia, parti dell'India, parte dell'Armenia, il Tagikistan, il Kazakhistan, l'Afganistán e l'Uzbekistán; verso Occidente, l'Africa del Nord, fino al Maghreb, e poi la Penisola iberica. Poco dopo la morte di Maometto, si ebbe, in seguito a una fitna, guerra interna al mondo musulmano, la separazione fra sciiti (concentrati soprattutto in Iran, ma largamente presenti anche nell'attuale Irak e in altre zone) e sunniti.
La poesie e la letteratura in quest'epoca furono prevalentemente nazionali.

3- Primo periodo del califfato degli Abbasidi, compreso fra il 750 y la fine del IX secolo. Vennero consolidate le conquiste precedenti, la capitale fu trasferita da Damasco a Bagdad. A differenza di quanto avveniva nel periodo Omeyyade, la cultura e anche la poesia acquisirono un respiro universalistica. Arrivavano alla capitale poeti da diverse zone del califfato ed ebbe una proiezione fondamentale la tradizione culturale persiana: la stessa struttura a cornici concentriche de Le mille e una notte viene dalla Persia, non dalla cultura araba.
La Sicilia diventò musulmana per poco più di cent'anni, a partire dalla seconda meta`del X secolo.

Il declino della poesia e della cultura araba, nell'Oriente prossimo e medio, si ebbe già durante il califfato abbaside, non, come qualcuno pensa erroneamente, per opera dei cristiani e della crociate, che rappresentarono un fenomeno marginale per il mondo musulmano, ma con il distacco di varie regioni dal califfato, fra cui l'Egitto, il Maghreb, Al Andalus, con la reiterata fitna e infine con l'arrivo dei mongoli.

4- Spagna araba. Gli arabi sbarcarono nella Spagna visigota e ne conquistarono una parte all'inizio dell'VIII, fondandovi l'Emirato di Cordoba, dapprima dipendente da Damasco, ma che poi si dichiarò califfato indipendente dagli Abbasidi. Il califfato degli Omeyyadi durò per quasi un secolo, cadde nel 1010 a causa di una guerra civile, un'ennesima fitna. Si ebbe un periodo di Taifas, piccoli principati, spesso in guerra fra loro. La dinastia degli Almoravidi, provenienti dal Nord Africa, riportò forzosamente l'unità, esercitando un potere dispotico che causò molte ribellioni. Dopo la cacciata degli Almoravidi, a metà del XII secolo, si affermarono gli Almohadi, altra dinastia del Nordafrica che riuscì a riunificare le Taifas. Al Andalus ebbe nel tempo, a seconda delle vicende, diversa estensione, ben oltre l'Andalusia odierna. Intanto era iniziata la conquista dei cristiani, che nel XIII secolo presero quasi tutti i territori de Al-Ándalus; restò in mano musulmana, fino alla fine del XV secolo, solo il regno di Granada.
Nella Spagna araba fu ricchissima la produzione poetica, come anche quella filosofica e scientifica, di diversa ispirazione: soprattutto attraverso la Spagna giunsero al resto d'Europa, e contribuirono potentemente alla grande fioritura culturale europea che avrebbe avuto inizio nei primi secoli del secondo millennio.

Il precedente articolo sul tema:


Qualche aggiunta.alla bibliografia


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