"...subito comprai due cavalli, di cui uno d'Andalusia della razza dei certosini di Xerez, stupendo animale, castagno d'oro; l'altro un hacha cordovese, più piccolo, ma eccellente, e spiritosissimo."

(Vittorio Alfieri, La Vita scritta da esso - 1790, 1803)

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Naturalmente nessuna analogia fra me e Vittorio Alfieri. Riporto le sue parole perché mi sarebbe piaciuto vivere in Andalusia quando ci venne lui.

venerdì 18 febbraio 2011

ARABISTI, ARABESCHI 27- POETI DI AL-ANDALUS 8 – Un principe sfortunato: dalle passeggiate notturne a Siviglia alla prigione nel Maghreb


Ricordo che dalla crisi e poi dalla disgregazione del califfato di Cordova (1031) sorsero decine di piccoli stati spesso in guerra tra loro: le taifas. C’è chi vede in questo periodo di Al Andalús una situazione per certi versi simile a quella della Provenza feudale e nella lirica che fiorì in questi tormentati regni una sorta di anticipazione della poesia occitana.
Come tutta la poesia antica araba, a maggior ragione quella sorta nelle numerose corti delle taifas fu lirica simposiale, strettamente intrecciata con la musica.
Al-Motamid fu signore di Siviglia (alla taifa di Siviglia erano state forzosamente unite molte località dell’odierna Andalusia e del Portogallo). Suo padre – Al-Motadid - era stato monarca potente e guerriero, famoso per la sua crudeltà.
Al-Motamid invece pare non si occupasse granché di guerre e conquiste, ma molto di poesia, e già mentre il padre era in vita, preso da altri pensieri pacifici, si lasciò sbaragliare dai nemici durante una spedizione contro Malaga. Al-Motadid, furioso, lo gettò in prigione, minacciandolo di morte, poi lo liberò. Quando finalmente questo padre feroce morì, nel 1069, Al-Motamid, salito al potere, poté dedicarsi a poesia e mecenatismo.
Il primo periodo del suo regno dovette essere per lui una delizia. Se ne andava a spasso di notte per Siviglia con il suo visir, componeva poesie, cantava l’amore udhrita e anche l’amor sensuale spesso legato alla dolcezza del vino…
Ecco una sua poesia sull’amore lontano:

PRESTO LA MORTE

Presto sarà la morte a vincere la mia passione;
non permetti che si calmi, mio cuore, il dolore che mi divora.
Lontano dalla mia signora, la mia gelosia mi fa guerra.
Non posso raggiungere la pace sulla terra, e il sogno, che invano chiamo
con la sua mano delicata non chiude mai le mie palpebre.
E un’altra, in cui dice di aver sognato l’amata:

UN’ANSIA D’AMORE
Un’ansia d’amore mi infondono, nel vederti nel sogno
le rose delle tue guance, le mele del tuo petto.
E sono ansioso di averle vicine, quando mi sveglio.
Ma tra noi due si frappone il velo degli spazi immensi.
Altri si rammarichino dell’assenza, altri soffrano per l’acerbo dolore;
ma tu, germoglio di palma, tu, gazzella dagli occhi neri,
tu, florido e chiuso giardino di fiori odorosi,
al mio cuore appassito, al mio cuore assetato,
dai vita, con il profumo, e la rugiada dei tuoi baci.
E il cielo ti colmi di felicità e di benedizioni.

E ora una poesia in cui è celebrato il vino, insieme al cielo, alla vittoria e all’amore “facile”:
CHE BRILLI IL VINO NEI BICCHIERI

Che brilli il vino nei bicchieri, e che il notturno velo
dispiegato nel cielo dissipi l’oscurità.
Verso Orione già la luna va versando la sua luce,
simile a un re che arrivi al culmine della sua gloria e della sua maestà.
Un esercito di stelle copre la sua strada scura;
in mezzo risalta e splende la luna bella:
instancabile pellegrina, per fluttuanti sentieri,
e le più preziose stelle ornano il suo regio baldacchino.
Come la luna nel cielo, così mi mostro in terra,
quando mi circonda, festante, il mio esercito vittorioso;
o quando meravigliose ragazze che mi circondano mi offrono vino,
e con voce d’argento intonano inni d’amore.
La notte dei loro capelli mi circonda di tenebre,
e il vino mi inonda di luce, il vino che amano porgermi.
Che cantino per me le belle, e le cetre risuonino;
le ampie coppe si riempiamo, e beviamo senza stancarci.

Intanto però era iniziata la riconquista cristiana, che poteva contare sulla debolezza dei regni arabi. Re Alfonso VI di Castiglia aveva costretto diversi principi musulmani, fra cui Al-Motamid, a versargli un tributo. Poi, non contento di questo, ordinò al re di Siviglia di consegnargli alcune fortezze. Al-Motamid allora chiamò in aiuto l’almoravide Jusuf-Ibn-Taschfin, monarca del Marocco. Questi arrivò con il suo esercito in Al-Andalús, e dopo varie vicende, sconfisse Alfonso VI. Alla battaglia, tremenda, partecipò anche Al-Motamid, che ne uscì vivo, ma coperto di ferite.
Il Cid (siamo nell’epoca del Cid Campeador) però uccise un figlio di Jusuf , che si ritirò in Marocco, dopo aver fatto mozzare una montagna di teste ai combattenti cristiani. Ma dopo un po’ di tempo tornò, buttò giù dal trono il re di Siviglia e poi si impadronì della fortezza di Tarifa e si fece proclamare signore dell’Andalusia. Successivamente Al-Motamid perse i due figli, quindi fu tratto in catene in Africa, e gettato nel carcere dove sarebbe rimasto fino alla morte.
In prigione poté comunque scrivere dei tristi versi, che sono stati tramandati, tra cui
CATENA, CHE QUAL SERPENTE

Catena, che, qual serpente, giri intorno al mio corpo,
prima che i tuoi anelli mi stringano e mi tormentino,
ferendomi i polsi e consumandomi le ossa,
pensa che cosa sono stato prima, e che mi devi rispetto.
La mano che leghi oggi, in altri tempi generosa,
proteggeva il derelitto e premiava gli uomini di ingegno;
se impugnava la scimitarra, nella tremenda battaglia,
apriva le porte del paradiso e quelle dell’inferno.
Morì in Spagna un altro suo figlio, dopo essere riuscito a ribellarsi per un po’ di tempo agli almoravidi. Al-Motamid scrisse versi dolenti anche in questa occasione e in tante altre della sua tormentosa prigionia.
Una volta, mentre c’era una festa a palazzo, le figlie, ridotte dai vincitori allo stato servile, andarono a trovarlo in carcere piangendo. Il re-poeta scrisse questa lacerante poesia, rivolta a se stesso:

QUANDO ERI LIBERO
Quando eri libero, le feste ti rallegravano l’anima,
che oggi geme prigioniera. Coperte di stracci,
oggi vedi le tue figlie, che filando
senza sosta si guadagnano la vita.
Arrivano a te piangenti, morte di fatica.
Le loro aride labbra accarezzano la tua fronte.
Calpestarono un tempo pavimenti di regge;
su ambra e profumi ponevano i piedi.
Ora pestano il fango coi i piedi nudi,
ora la miseria fa appassire i loro visi,
ora lacrime solcano le loro guance.
È giusto che tu pianga la festa di questo giorno.
L’invidia ti ha reso schiavo del fato,
di quel fato che prima ti offriva gioie.
Invano i re confidano nella sua costanza:
il potere è sogno, la gloria menzogna.
Ho tratto le poesie di Al-Motamid – solo una scheggia della produzione di quest’autore e un granello della lirica araba di questi secoli – dal libro di Von Schack, Poesia y arte de los árabes en España y Sicilia, cit.; trad. mia dallo spagnolo.

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