"...subito comprai due cavalli, di cui uno d'Andalusia della razza dei certosini di Xerez, stupendo animale, castagno d'oro; l'altro un hacha cordovese, più piccolo, ma eccellente, e spiritosissimo."

(Vittorio Alfieri, La Vita scritta da esso - 1790, 1803)

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Naturalmente nessuna analogia fra me e Vittorio Alfieri. Riporto le sue parole perché mi sarebbe piaciuto vivere in Andalusia quando ci venne lui.

venerdì 19 ottobre 2012

ARABISTI E SCRITTORI DI OGGI: IL DESERTO E LA COMPLESSITÀ UMANA

Lo straordinario scrittore Al-Koni

Due libri del grande scrittore libico Ibrahim Al-Koni (o al-Kawni) sono disponibili in traduzione italiana: il romanzo Polvere d'oro, Ilisso, Nuoro 2005, e la raccolta di raccontiLa patria delle visioni celesti e altri racconti del deserto, e/o. Roma 2007. La casa editrice Jouvence ha pubblicato un secondo romanzo, Pietra di sangue, che tematizza la guerra coloniale italiano in Libia, però questo libro è esaurito e non so se la casa editrice abbia in programma una sua riedizione: me lo auguro.

I libri di al-Koni sono stati tradotti in più lingue e il loro autore ha suscitato un grande e giustificato interesse in vari paesi europei. Non so quanto sia conosciuto in Italia, pur in questo periodo in cui molto si parla dell'atroce occupazione coloniale della Libia, di cui nel 2011 è caduto il centenario.

La formazione, il deserto, l'oasi

Possiamo leggere il romanzo Polvere d'oro, una storia di grande densità e complessità, con interesse per l'esotismo, per paesaggi che non sono i nostri, per il deserto che affascina : quindi con lo spirito di un turista che fotografa con piacere continenti lontani, e poi mostra ai suoi amici, in patria, quelle immagini di luoghi in cui non è entrato davvero, con tutto se stesso. Una lettura di questo tipo sarebbe sbagliata e impoverente.

Si può invece cercare di leggere Polvere d'oro come qualcosa che ci appartiene. L'ho percepito come mio, questo libro, e tenterò di comunicare questa percezione a chi leggerà questo post
Ho percepito ciò che al-Koni ha raccontato in questo romanzo come un insieme di esperienze che, pur nella differenza di tempi, luoghi, culture, mi riguardano. Non solo: il suo racconto mi ha fatto venire in mente letture e visioni del mondo di poeti e scrittori italiani che amo. Indicherò alcune analogie senza l'intenzione presuntuosa di condurre un improbabile confronto intertestuale, bensì alludendo a percorsi del mio pensiero, che, chissà, potranno essere condivisi da altri. Penso infatti che, per misteriose vie di terra, d'acqua e d'aria, si formino nel tempo universi affettivi e di senso che si sovrappongono, si allargano, si fanno universali. O forse sono, questi temi e queste atmosfere, innati nell'essere umano? Non lo so, Però mi sembra che quando si parla di “universalità” di una creazione letteraria, si allude proprio a queste somiglianze nelle sensibilità di persone fra loro lontane nel tempo e nello spazio, a questo vai e vieni di immagini, temi e forme, che ci fanno sentire l'unità della specie umana e la lentezza e la circolarità avvolgente del cammino degli affetti.

La storia di Ukhayyad

Il nucleo tematico fondamentale della storia di Ukhayyad, protagonista di Polvere d'oro, sta nel conflitto fra ansia di libertà e di infinito - l'essenza della vita del beduino - e la spinta a legarsi, ad amare la donna, ad avere figli - la vita del contadino, “regolata”, in cui il tempo è misurato dai compiti quotidiani, dalla semina e dall'attesa del raccolto -.
Tra questi due stili di vita, si muove il giovane Ukhayyad con il suo fiero dromedario pezzato, che ha ricevuto in regalo quand'era ragazzino dal capo di un'importante tribù: è, il suo, il dromedario più bello di tutto il deserto, unico.
L'uomo e il suo amico percorrono il deserto e attraversano le oasi: sono l'uno il doppio dell'altro, l'uno l'anima dell'altro. Ribelli alle costrizioni entrambi, capaci di grandi gesti, vittime anche di frustrazioni, facili a incorrere in devastanti passioni amorose per l'essere di sesso opposto: perché quest'amore impedisce di andare, crea obblighi e pure disastri, che ostacolano il cammino verso l'infinito.

Nel romanzo di al-Koni, il deserto è un infinito-complesso. Più infinito – se si può dire così – dell'oceano, dal punto di vista di chi lo percorre a piedi o sul dorso di un cammello/dromedario: perché l'oceano presenta comunque un orizzonte piatto e circolare, che può spostarsi, se uno procede a bordo di una nave, ma resta sempre un limite con una forma uguale. La vera scoperta per chi naviga nell'oceano non si attende dall'oceano stesso, ma dall'avvistamento della terra.Invece il deserto, altrettanto immenso, con le sue ondulazioni e i suoi miraggi ricrea continuamente in chi lo percorre l'attesa di una scoperta imprevista e assoluta, e attrae attrae come una droga potente. In un racconto di al-Koni, il deserto si impersona in un grande uccello dai bellissimi colori, che si manifesta ai bambini, cercando di portarli alla perdizione: il piccolo essere umano, se non adeguatamente sorvegliato, si mette a inseguire l'uccello, che, come l'orizzonte del deserto, compare e scompare, e avvince con il suo inganno, fino a che non porta alla perdizione e alla morte colui che ha ceduto al suo fascino.

Il deserto di al-Koni è non solo il richiamo all'infinito, ma anche il luogo della complessità della vita, del rischio, della formazione profonda, della lotta con se stesso, dell'affratellamento e del conflitto con tutti gli esseri viventi. Il racconto è densissimo di pensieri, visioni, sensazioni: più di un qualsiasi monologo interiore che conosciamo.

Al deserto e alla vita del beduino
tuareg si contrappone il campo e la vita del contadino. Probabilmente non c`è (o non c'era, prima del petrolio!) luogo al mondo in cui potesse vivere o rinascere la poesia degli antichissimi nomadi del deserto arabico, che composero i loro canti prima dell'avvento del Profeta: sebbene questo romanzo di al-Koni sia più crudele, meno “composto delle splendide casside preislamiche. Sta alla poesia classica – mi viene da dire – come le tragedie di Seneca stanno a quelle dei tre grandi tragediografi greci.

Ricordo quel che dice sull'antico uomo del deserto un arabista spagnolo, Federico Corriente:

In quest'ambiente si definiscono le caratteristiche morali del beduino: crudeltà e violenza, per la difesa del suo unico mezzo di vita e del suo unico possesso, il bestiame; rapina per sottrarlo agli altri, solidarietà nei confronti del suo gruppo, unica garanzia di sopravvivenza per l'individuo in un ambiente spietato; identificazione con la natura, rude ma lirica, come in tutte le steppe in cui la solitudine genera melanconia e intensità nel sentire […]; forte patriarcato in una gerarchia tribale, che garantisce l'unità di comando e di giudizio, e il successo nella lotta per la vita, spesso condotta
con armi […].Persino nelle sue credenze, il nomade è diverso dal contadino sedentario, che si mostra, in fatto di religione, interessato, credulo fino all'idiozia, prende in giro il clero della propria religione, in cui non ha fiducia, però è timoroso per i suoi poderi, e tende sempre a rendere concreti e ad antropomorfizzare i suoi dei che hanno sede nella madre terra che gli dà da vivere e in oggetti che si possono toccare; il nomade, al contrario, è più incline alla metafisica, crede in un Essere soprannaturale, ineffabile e astratto, la cui essenza si connette alle cose materiali solo in senso simbolico, un Essere potente, che conosce quello che è nascosto agli uomini, signore assoluto delle vite e delle fortune, pur se in ultima istanza giusto nei suoi disegni imperscrutabili, in genere disinteressato alla condotta umana, che deve regolarsi non sulla speranza di un premio ultraterreno, ma per rispetto verso se stessi e per la reputazione di se stessi e dei propri discendenti. (Corriente Córdoba e Monferrer Sala, op.cit. Trad. mia dallo spagnolo). Questo passo l'ho già citato in un mio post di tanto tempo fa sulla poesia preislamica. ). Le riflessioni di Corriente-Monferrer sulla vita dei poeti beduini dell'Arabia preislamica, ho rilevato già allora, mi riportano alle domande metafisiche e senza risposta del Canto notturno di un pastore errante per l'Asia di Giacomo Leopardi.
Ukhayyad è erede di questi beduini, ma in una situazione mutata, pur nel deserto “senza storia”: mutata e resa più spietata da un colonialismo rapace, e anche con tratti di viltà e di disonore insopportabile. Lui è un beduino solo e anarchico, senza gregge, con un'esile realtà tribale alle sue spalle. Certamente è presente in tutta la storia una divinità unica e enigmatica, non particolarmente amica dell'uomo, di cui parla Corrente; però compaiono una molteplicità di esseri magici, non solo ginn, presenti anche nella tradizione islamica, in cui confluiscono anche tratti dell'animismo africano.
Senza dubbio, il protagonista di Polvere d'oro è portatore di una visione del mondo che oggi diremmo “antifemminista”: la donna, con la passione che suscita e con la sua misteriosa capacità di generare, è la “concretezza” che pone un limite all'ansia di infinito del beduino, che ridimensiona duramente le sue domande metafisiche con la richiesta di prodigarsi per la sopravvivenza sua e dei discendenti. È la forza che preserva la vita individuale, contro la spinta a dissiparsi nell'infinito.
Non è da stupirsi né da scandalizzarsi.
Questa visione ha accompagnato gran parte dell'umanità per millenni e non è stata dovuta alla malvagità della parte maschile, ma, in gran parte, a condizioni oggettive: la donna, per cui l'atto sessuale era legato obiettivamente alla procreazione, è stata inevitabilmente la tutrice della vita dei piccoli, che fino a non molto tempo fa, anche nelle zone della terra che oggi consideriamo “sviluppate”, era estremamente fragile, esposta a infiniti pericoli. Solo la modernità – e, aggiungerei, una modernità recente, che in molte zone d'Italia e pure della Spagna non ha più di cinquanta anni -, con la riduzione drastica della mortalità infantile e la possibilità di separare il sesso dalla procreazione, ha reso possibile un movimento di emancipazione e di liberazione della donna.
Oggi, la contraddizione di Ukhayyad, il sentirsi diviso fra un'ansia di libertà e di infinito e le necessità della “vita concreta” e degli affetti quotidiani, fra la condizione del beduino del deserto, e quella del contadino dell'oasi, stanziale e in attesa dei raccolto, può essere vissuta, nella nostra società, sia da parte dell'uomo che della donna. Io, almeno, l'ho sentita anche come contraddizione mia: una contraddizione a volte dolorosa, ma sempre molto vitale.

Da una parte, dunque, il beduino, l'uomo libero, che si immerge in una natura non certo pietosa, intrisa di immagini ancestrali, di apparenze e realtà fuggenti e potenti; il legame con il dromedario bellissimo, il più bello di tutto il deserto, a cui Ukhayyad chiede una pazienza di cui lui stesso non è capace; dall'altro una vita protetta dalla convenzioni sociali, l'unione con la donna, la nascita del figlio. Da un lato le potenzialità infinite dell'essere umano; dall'altro la loro riduzione a una forma sociale che può apparire impoverente, ma è pur necessaria per vivere e salvaguardare la vita altrui. Non ci ha parlato di questo irriducibile dualismo, pur in contesti profondamente diversi, il grande Pirandello, fra l'altro molto amato da alcuni scrittori arabi e tradotto da italianisti libici?

Da un lato, infine, la purezza del non-possesso del beduino, dall'altra la corruzione indotta dalla polvere d'oro.

Un ampio passo tratto dal testo di un autore del XIV secolo e posto da al-Koni come seconda citazione di apertura del suo romanzo allude a questa corruzione portata dall'oro (non si tratta sicuramente di un tema presente solo nella letteratura araba!):

sotto il dominio del sultano di questo regno, c'è un paese dove ogni anno trasportano la polvere d'oro. Si tratta di barbari infedeli e, se solo volesse, li castigherebbe. Ma i sovrani di questi regni hanno verificato che, appena una delle città dell'oro veniva conquistata, vi si diffondeva l'Islam ed era pronunciato l'adhan, l'invito alla preghiera, l'oro cominciava a scarseggiare, le riserve diminuivano fino a sparire del tutto, e aumentavano nei paesi dei miscredenti. (Ibn Fadl Allah al-'Umari, Il regno del Mali e altri paesi; per sapere chi fosse l'autore di questo scritto citato da al-koni, clicca qui)

L'oro è stato dunque nel passato esca per attrarre gli uomini all'Islam, ma subito dopo aver assolto al suo compito avrebbe dovuto sparire da quella determinata terra. Quando è restato o è stato reintrodotto, ha provocato orrori.

L'oppressione coloniale come male quasi metafisico, lontano e al tempo stesso incombente

La contraddizione che l'uomo porta in sé fra liber e donna/figli che incatenano, fra ansia di infinito e doveri verso i piccoli, diventa, con lo scatenarsi dell'avidità umana, selvaggia, atroce, sporca, crudele, mortifera, quando l'equilibrio fra i due estremi viene infranto dall'irrompere del colonialismo. Probabilmente al-Koni, nel citare il passo dello scrittore del XIV secolo, pensava alla corrente dell'Islam del movimento senussita, che nel XX secolo si diffuse ampiamente nel deserto e nelle oasi e riuscì a mediare fra la vita del contadino e quella del beduino, fra l'oasi e il deserto, con una proposta di vita pura, sobria, fondata sul lavoro anche dei campi disponibili, sul commercio onesto e sul buon esempio. La rete di centri di irradiazione di questo movimento religioso e insieme di proposta etica e di vita pratica fu devastata dall'avido, rozzo, cinico, violento colonialismo italiano, la cui opera distruttrice culminò, com'è noto, con l'impiccagione di 'Umar al-Muktar.

Nel romanzo gli aggressori italiani, stringono l'assedio al deserto: incombe la loro crudeltà, ma non si vedono. Le persone del deserto ne parlano, alludendo alla loro spietatezza. E forse non si vedono anche perché l'autore disdegna di mostrare coloro che consideravano il popolo del deserto come non umano o addirittura invisibile, perché per loro non contava niente. L'interesse di al-Koni è raccontare di questo popolo, delle sue fantasie, desideri, contraddizioni, visioni, tragedie, viltà. Non descrivere i miserabili oppressori.
Il colonialismo, portando devastazione, fame, morte, nelle zone fertili, nelle oasi, nel mondo dei contadini, delle famiglie, degli affetti stabili e dei doveri, impedisce al protagonista di vivere con relativa mitezza la contraddizione di cui ho detto già più volte. La guerra che gli invasori italiani conducono contro il popolo del deserto e delle oasi porta fame e morte, soprattutto ai figli; l'oro corrompe gli stessi arabi e perfino Ukhayyad in un momento di debolezza e di smarrimento di se stesso si lascia contaminare. Perde l'onore nella società degli uomini, cerca di fuggire a tutto, con il suo amico pezzato. Ma sarà inutile.Questo romanzo, per qualche aspetto, mi fa pensare al bellissimo Per violino solo: la mia infanzia nell'Aldiqua. 1938-1945, di Aldo Zargani, Il Mulino, Bologna 1995, che ora non ho con me. Ricordo soprattutto, di questo libro, il racconto della permanenza della famiglia in una valle montana sotto il controllo e la protezione dei partigiani. I nazisti e i fascisti non si vedevano, si sapeva però che erano un pericolo incombente.
Due storie,
quella di al-Koni e quella di Zargani, certamente diverse per culture, luoghi, personaggi, situazioni. Però anche nel romanzo di Zargani, la presenza dei persecutori è avvertita a distanza, e nei luoghi montani in cui si nascondono i perseguitati si avvertono fortemente il senso magico della vita e l'intensità della scoperta, una vitalità magica che nulla può soffocare

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