Lo
straordinario scrittore Al-Koni
Due libri del grande scrittore libico
Ibrahim
Al-Koni (o al-Kawni) sono disponibili in traduzione italiana:
il romanzo Polvere d'oro, Ilisso, Nuoro 2005,
e la raccolta di raccontiLa patria delle visioni celesti e altri racconti del deserto, e/o. Roma 2007.
La casa editrice Jouvence ha pubblicato un secondo romanzo, Pietra
di sangue, che tematizza la
guerra coloniale italiano
in Libia, però questo libro è esaurito e non so se la casa editrice
abbia in programma una sua
riedizione: me lo auguro.
I
libri di al-Koni sono stati tradotti in più
lingue e il loro autore
ha suscitato un grande e giustificato interesse
in vari paesi europei. Non so quanto sia conosciuto in Italia, pur in
questo periodo in cui molto si parla dell'atroce occupazione
coloniale della Libia, di cui nel 2011 è caduto il centenario.
La
formazione, il deserto, l'oasi
Possiamo
leggere il romanzo Polvere
d'oro, una storia di grande
densità e complessità, con interesse per l'esotismo, per paesaggi
che non sono i nostri,
per il deserto che affascina
: quindi
con lo spirito di un
turista che
fotografa con piacere
continenti lontani, e poi
mostra ai suoi amici, in patria, quelle
immagini di luoghi in cui non
è entrato davvero, con tutto
se stesso. Una lettura di
questo tipo sarebbe sbagliata
e impoverente.
Si può
invece cercare di leggere Polvere d'oro
come qualcosa che ci appartiene. L'ho
percepito come mio, questo libro, e tenterò di comunicare questa
percezione a chi leggerà questo post
La
storia di Ukhayyad
Il
nucleo tematico fondamentale
della storia di
Ukhayyad, protagonista
di Polvere d'oro, sta
nel conflitto fra ansia di libertà e di infinito -
l'essenza della vita del
beduino -
e la spinta a legarsi, ad
amare la
donna, ad avere figli - la vita del contadino, “regolata”, in cui
il tempo è misurato dai compiti quotidiani, dalla semina e
dall'attesa del raccolto -.
Tra
questi due stili di vita, si muove il giovane Ukhayyad
con il suo fiero dromedario
pezzato, che ha ricevuto in
regalo quand'era ragazzino
dal capo di un'importante tribù: è,
il suo, il
dromedario più bello di
tutto il deserto, unico.
L'uomo
e il suo amico percorrono
il deserto e attraversano
le oasi: sono l'uno il doppio
dell'altro, l'uno l'anima dell'altro. Ribelli alle costrizioni
entrambi, capaci di grandi
gesti, vittime anche di frustrazioni,
facili a incorrere
in devastanti
passioni
amorose per
l'essere di sesso opposto:
perché quest'amore
impedisce
di andare, crea obblighi e
pure disastri, che
ostacolano
il cammino verso l'infinito.
Nel
romanzo di al-Koni, il deserto è un infinito-complesso. Più
infinito – se si può dire così – dell'oceano,
dal punto di vista di chi lo
percorre a piedi o sul dorso di un cammello/dromedario: perché
l'oceano presenta comunque un orizzonte piatto e circolare, che può
spostarsi, se uno procede a
bordo di una nave, ma resta
sempre un limite con una forma uguale. La
vera scoperta per chi naviga nell'oceano non si attende dall'oceano
stesso, ma dall'avvistamento della terra.Invece
il deserto, altrettanto immenso, con le sue ondulazioni e
i suoi miraggi ricrea
continuamente in chi lo percorre l'attesa di
una scoperta imprevista
e assoluta,
e
attrae attrae come una droga
potente. In un racconto di
al-Koni, il deserto si
impersona in un grande
uccello dai bellissimi colori, che si manifesta ai bambini, cercando
di portarli alla perdizione: il piccolo
essere umano, se non
adeguatamente sorvegliato, si mette a inseguire l'uccello, che, come
l'orizzonte del deserto, compare e scompare, e avvince
con il suo inganno, fino a che non
porta alla perdizione e alla morte colui che ha ceduto
al suo fascino.
Il
deserto di al-Koni è non solo il richiamo all'infinito, ma anche il
luogo della complessità della vita, del rischio, della formazione
profonda, della lotta con se
stesso, dell'affratellamento
e del conflitto con tutti gli esseri viventi. Il
racconto è densissimo di pensieri, visioni, sensazioni: più
di un qualsiasi monologo
interiore che conosciamo.
Al deserto e alla vita del beduino tuareg si contrappone il campo e la vita del contadino. Probabilmente non c`è (o non c'era, prima del petrolio!) luogo al mondo in cui potesse vivere o rinascere la poesia degli antichissimi nomadi del deserto arabico, che composero i loro canti prima dell'avvento del Profeta: sebbene questo romanzo di al-Koni sia più crudele, meno “composto delle splendide casside preislamiche. Sta alla poesia classica – mi viene da dire – come le tragedie di Seneca stanno a quelle dei tre grandi tragediografi greci.
Ricordo
quel che dice sull'antico
uomo del deserto un arabista
spagnolo, Federico Corriente:
In
quest'ambiente si definiscono le caratteristiche morali del beduino:
crudeltà e violenza, per la difesa del suo unico mezzo di vita e del
suo unico possesso, il bestiame; rapina per sottrarlo agli altri,
solidarietà nei confronti del suo gruppo, unica garanzia di
sopravvivenza per l'individuo in un ambiente spietato;
identificazione con la natura, rude ma lirica, come in tutte le
steppe in cui la solitudine genera melanconia e intensità nel
sentire […]; forte patriarcato in una gerarchia tribale, che
garantisce l'unità di comando e di giudizio, e il successo nella
lotta per la vita, spesso condotta
con armi […].Persino
nelle sue credenze, il nomade è diverso dal contadino sedentario,
che si mostra, in fatto di religione, interessato, credulo fino
all'idiozia, prende in giro il clero della propria religione, in cui
non ha fiducia, però è timoroso per i suoi poderi, e tende sempre a
rendere concreti e ad antropomorfizzare i suoi dei che hanno sede
nella madre terra che gli dà da vivere e in oggetti che si possono
toccare; il nomade, al contrario, è più incline alla metafisica,
crede in un Essere soprannaturale, ineffabile e astratto, la cui
essenza si connette alle cose materiali solo in senso simbolico, un
Essere potente, che conosce quello che è nascosto agli uomini,
signore assoluto delle vite e delle fortune, pur se in ultima istanza
giusto nei suoi disegni imperscrutabili, in genere disinteressato
alla condotta umana, che deve regolarsi non sulla speranza di un
premio ultraterreno, ma per rispetto verso se stessi e per la
reputazione di se stessi e dei propri discendenti.
(Corriente
Córdoba
e
Monferrer Sala, op.cit. Trad.
mia dallo spagnolo).
Questo
passo l'ho già citato in un mio post di tanto tempo fa sulla poesia preislamica. ). Le
riflessioni di Corriente-Monferrer sulla
vita dei poeti beduini dell'Arabia preislamica, ho
rilevato già allora,
mi
riportano
alle domande metafisiche e senza risposta del
Canto notturno di un pastore errante
per l'Asia
di Giacomo Leopardi.
Ukhayyad
è erede
di questi beduini, ma in una situazione mutata, pur nel deserto
“senza storia”: mutata e
resa più spietata da un
colonialismo rapace, e anche
con tratti di viltà e di disonore insopportabile.
Lui
è un beduino solo e anarchico, senza gregge, con un'esile realtà
tribale alle sue spalle. Certamente è presente in tutta la storia
una divinità unica e enigmatica, non particolarmente amica
dell'uomo, di cui parla Corrente; però compaiono una molteplicità
di esseri magici, non solo ginn,
presenti anche nella tradizione islamica, in cui confluiscono anche
tratti dell'animismo africano.
Senza
dubbio, il protagonista di
Polvere d'oro è
portatore di una visione del
mondo che oggi diremmo “antifemminista”: la donna, con la
passione che suscita e con la sua misteriosa
capacità di generare, è
la “concretezza” che pone
un limite
all'ansia
di infinito del beduino, che ridimensiona duramente
le sue domande metafisiche con
la richiesta di prodigarsi
per la sopravvivenza sua e
dei discendenti.
È la forza che preserva la
vita individuale, contro la spinta a dissiparsi
nell'infinito.
Non è da stupirsi né da scandalizzarsi. Questa visione ha accompagnato gran parte dell'umanità per millenni e non è stata dovuta alla malvagità della parte maschile, ma, in gran parte, a condizioni oggettive: la donna, per cui l'atto sessuale era legato obiettivamente alla procreazione, è stata inevitabilmente la tutrice della vita dei piccoli, che fino a non molto tempo fa, anche nelle zone della terra che oggi consideriamo “sviluppate”, era estremamente fragile, esposta a infiniti pericoli. Solo la modernità – e, aggiungerei, una modernità recente, che in molte zone d'Italia e pure della Spagna non ha più di cinquanta anni -, con la riduzione drastica della mortalità infantile e la possibilità di separare il sesso dalla procreazione, ha reso possibile un movimento di emancipazione e di liberazione della donna.
Non è da stupirsi né da scandalizzarsi. Questa visione ha accompagnato gran parte dell'umanità per millenni e non è stata dovuta alla malvagità della parte maschile, ma, in gran parte, a condizioni oggettive: la donna, per cui l'atto sessuale era legato obiettivamente alla procreazione, è stata inevitabilmente la tutrice della vita dei piccoli, che fino a non molto tempo fa, anche nelle zone della terra che oggi consideriamo “sviluppate”, era estremamente fragile, esposta a infiniti pericoli. Solo la modernità – e, aggiungerei, una modernità recente, che in molte zone d'Italia e pure della Spagna non ha più di cinquanta anni -, con la riduzione drastica della mortalità infantile e la possibilità di separare il sesso dalla procreazione, ha reso possibile un movimento di emancipazione e di liberazione della donna.
Oggi,
la contraddizione di Ukhayyad,
il sentirsi diviso fra un'ansia di libertà e di infinito e le
necessità della “vita concreta” e degli affetti quotidiani, fra
la condizione del beduino del deserto, e quella del contadino
dell'oasi, stanziale e in attesa dei raccolto, può essere vissuta,
nella nostra società, sia da parte dell'uomo che della donna. Io,
almeno, l'ho sentita anche
come contraddizione mia:
una contraddizione a volte
dolorosa, ma sempre
molto vitale.
Da
una parte, dunque, il
beduino, l'uomo libero, che
si immerge
in una
natura non certo pietosa,
intrisa di
immagini ancestrali, di
apparenze e realtà fuggenti
e
potenti;
il legame
con il
dromedario bellissimo, il più bello di tutto il deserto, a
cui Ukhayyad
chiede una pazienza di cui lui stesso non è capace;
dall'altro
una vita protetta dalla convenzioni sociali,
l'unione
con la donna, la nascita del figlio.
Da un
lato le potenzialità infinite dell'essere umano; dall'altro la loro
riduzione a una forma sociale che
può apparire
impoverente, ma è
pur necessaria
per vivere e
salvaguardare la vita altrui.
Non ci ha parlato di questo irriducibile dualismo, pur
in contesti
profondamente diversi,
il grande Pirandello, fra l'altro molto amato da alcuni scrittori
arabi e tradotto da italianisti libici?
Da
un lato, infine,
la purezza del non-possesso del beduino, dall'altra la corruzione
indotta dalla polvere d'oro.
Un
ampio passo tratto dal
testo di
un autore del XIV secolo e posto da al-Koni come
seconda citazione di
apertura del suo romanzo
allude a questa
corruzione portata dall'oro (non
si tratta sicuramente di un tema presente solo nella letteratura
araba!):
… sotto il dominio
del sultano di questo regno, c'è un paese dove ogni anno trasportano
la polvere d'oro. Si tratta di barbari
infedeli e, se solo volesse, li castigherebbe. Ma i sovrani di questi
regni hanno verificato che, appena una delle città dell'oro veniva
conquistata, vi si diffondeva l'Islam ed era pronunciato l'adhan,
l'invito alla preghiera, l'oro cominciava a scarseggiare, le riserve
diminuivano fino a sparire del tutto, e aumentavano nei paesi dei
miscredenti.
(Ibn Fadl Allah al-'Umari, Il regno del Mali e altri paesi; per
sapere chi fosse l'autore di questo scritto citato da al-koni, clicca qui)
L'oro
è stato dunque nel passato esca per attrarre gli uomini all'Islam,
ma subito dopo aver assolto al suo compito avrebbe dovuto sparire da
quella determinata terra. Quando è restato o è stato reintrodotto,
ha provocato orrori.
L'oppressione
coloniale come male quasi metafisico, lontano e al
tempo stesso
incombente
La
contraddizione che
l'uomo porta in sé fra
libertà
e
donna/figli
che incatenano,
fra ansia di infinito e doveri verso i
piccoli,
diventa, con
lo scatenarsi dell'avidità umana,
selvaggia,
atroce, sporca,
crudele,
mortifera, quando
l'equilibrio fra i due estremi viene infranto dall'irrompere del
colonialismo.
Probabilmente
al-Koni, nel citare il passo dello scrittore del XIV secolo, pensava
alla
corrente dell'Islam
del movimento senussita, che nel
XX secolo si
diffuse ampiamente nel deserto e nelle oasi e riuscì
a mediare fra la
vita del contadino e quella
del
beduino, fra
l'oasi e
il
deserto, con
una proposta di vita pura, sobria,
fondata sul lavoro anche
dei campi disponibili, sul commercio onesto
e sul buon esempio. La rete di centri di irradiazione di questo
movimento religioso e insieme di
proposta etica e di vita pratica
fu devastata dall'avido,
rozzo, cinico, violento colonialismo
italiano,
la cui opera distruttrice culminò, com'è noto, con l'impiccagione
di 'Umar al-Muktar.
Nel
romanzo
gli aggressori italiani, stringono
l'assedio al
deserto:
incombe la
loro crudeltà,
ma non si
vedono. Le
persone del deserto ne parlano, alludendo alla loro spietatezza.
E forse
non si vedono anche perché l'autore disdegna di mostrare coloro che
consideravano il popolo del deserto come non umano o
addirittura invisibile, perché per loro non contava niente.
L'interesse di al-Koni è raccontare di questo popolo, delle sue
fantasie, desideri, contraddizioni, visioni, tragedie,
viltà.
Non descrivere
i
miserabili oppressori.
Il colonialismo, portando devastazione, fame, morte, nelle zone fertili, nelle oasi, nel mondo dei contadini, delle famiglie, degli affetti stabili e dei doveri, impedisce al protagonista di vivere con relativa mitezza la contraddizione di cui ho detto già più volte. La guerra che gli invasori italiani conducono contro il popolo del deserto e delle oasi porta fame e morte, soprattutto ai figli; l'oro corrompe gli stessi arabi e perfino Ukhayyad in un momento di debolezza e di smarrimento di se stesso si lascia contaminare. Perde l'onore nella società degli uomini, cerca di fuggire a tutto, con il suo amico pezzato. Ma sarà inutile.Questo romanzo, per qualche aspetto, mi fa pensare al bellissimo Per violino solo: la mia infanzia nell'Aldiqua. 1938-1945, di Aldo Zargani, Il Mulino, Bologna 1995, che ora non ho con me. Ricordo soprattutto, di questo libro, il racconto della permanenza della famiglia in una valle montana sotto il controllo e la protezione dei partigiani. I nazisti e i fascisti non si vedevano, si sapeva però che erano un pericolo incombente.
Due storie, quella di al-Koni e quella di Zargani, certamente diverse per culture, luoghi, personaggi, situazioni. Però anche nel romanzo di Zargani, la presenza dei persecutori è avvertita a distanza, e nei luoghi montani in cui si nascondono i perseguitati si avvertono fortemente il senso magico della vita e l'intensità della scoperta, una vitalità magica che nulla può soffocare.
Il colonialismo, portando devastazione, fame, morte, nelle zone fertili, nelle oasi, nel mondo dei contadini, delle famiglie, degli affetti stabili e dei doveri, impedisce al protagonista di vivere con relativa mitezza la contraddizione di cui ho detto già più volte. La guerra che gli invasori italiani conducono contro il popolo del deserto e delle oasi porta fame e morte, soprattutto ai figli; l'oro corrompe gli stessi arabi e perfino Ukhayyad in un momento di debolezza e di smarrimento di se stesso si lascia contaminare. Perde l'onore nella società degli uomini, cerca di fuggire a tutto, con il suo amico pezzato. Ma sarà inutile.Questo romanzo, per qualche aspetto, mi fa pensare al bellissimo Per violino solo: la mia infanzia nell'Aldiqua. 1938-1945, di Aldo Zargani, Il Mulino, Bologna 1995, che ora non ho con me. Ricordo soprattutto, di questo libro, il racconto della permanenza della famiglia in una valle montana sotto il controllo e la protezione dei partigiani. I nazisti e i fascisti non si vedevano, si sapeva però che erano un pericolo incombente.
Due storie, quella di al-Koni e quella di Zargani, certamente diverse per culture, luoghi, personaggi, situazioni. Però anche nel romanzo di Zargani, la presenza dei persecutori è avvertita a distanza, e nei luoghi montani in cui si nascondono i perseguitati si avvertono fortemente il senso magico della vita e l'intensità della scoperta, una vitalità magica che nulla può soffocare.
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