SCUOLA ED EGEMONIA DELLA DESTRA
Quello che sto per dire non servirà a
niente. Da un piccolo blog periferico, di un'insegnante da tempo in
pensione, non possono arrivare suggerimenti e idee che incidano sulla
gestione effettiva delle cose. Però scrivo ugualmente ciò che sento
e penso, senza la presunzione-illusione di poter parlare a un
pubblico vasto. Dirò le mie opinioni su aspetti politiche della
scuola e dell'università perché ho voglia di farlo, con lo spirito
di chi scrive un diario. Riguardano sia l'Italia sia la Spagna e non
presumono di essere né organiche né esaustive.
Una prima
questione è questa: come si valutano le scuole e le università?
A parte quello che tentò il povero
Luigi Berlinguer, ingiustamente bersagliato da tanti, il tentativo
dei governi di valutare la scuola si è basato essenzialmente sulla
prove somministrate agli alunni in uscita da determinati gradi di
scuola.
I test Invalsi in Italia hanno suscitato ampi dibattiti. In Spagna, per quel che mi risulta, nella scuola non ci sono tuttora strumenti di questo tipo, generalizzati, però si è parlato fino alla follia degli esiti di Pisasi è parlato fino alla follia dei risultati di Pisa ,che hanno collocato gli studenti spagnoli a un livello basso e quelli dell'Andalusia a un livello ancora più basso.
I test Invalsi in Italia hanno suscitato ampi dibattiti. In Spagna, per quel che mi risulta, nella scuola non ci sono tuttora strumenti di questo tipo, generalizzati, però si è parlato fino alla follia degli esiti di Pisasi è parlato fino alla follia dei risultati di Pisa ,che hanno collocato gli studenti spagnoli a un livello basso e quelli dell'Andalusia a un livello ancora più basso.
Naturalmente non si è tenuto conto –
e come si sarebbe potuto? - del fatto che, almeno nel 2006, la Spagna
era il paese con maggiore immigrazione e integrazione delle minoranze
di tutto l'Occidente europeo, ecc. ecc..
In Italia, a parte le polemiche
continue che ci sono state sulla formulazione e la somministrazione
dei test Invalsi, si è proceduto in maniera più cadenzata che in
Spagna nel valutare le prestazioni degli alunni, e, dagli esiti degli
alunni, gli insegnanti e
soprattutto la scuola come
sistema e come singolo istituto.
In Spagna, nell'Università, quasi
sempre (qualche volta dimenticano, però raramente) gli studenti sono
invitati a compilare una scheda di valutazione su ciascun professore.
Tali questionari sono molto particolareggiati: si può leggere la
parte finale di un articolo sul tema, che ne riporta la tipologia in
ciascuna università, in questo link. Nella scheda di valutazione di ciascun professore proposta agli
studenti dell'Università di Cadice, per esempio, ci sono 27 items,
raggruppati in tre blocchi: agli studenti si richiede soprattutto la
valutazione sulla preparazione del professore e la sua capacità di
impartire lezione. Quando mi sono trovata per la prima volta a
compilare questa scheda come studentessa, ho pensato: “ Che
meraviglia! Se qualcuno proponesse agli studenti italiani una scheda
di questo genere, probabilmente esploderebbe una protesta fragorosa
da parte dei nostri professori universitari”.
Con il passare del tempo, ho capito che i professori migliori sono molto interessati alla valutazione espressa dai loro studenti, e certe volte comunicano in classe con soddisfazione che hanno preso buoni voti; i peggiori, non so. Ho anche l'impressione che queste valutazioni o sono un poco accomodate da parte degli studenti, per un qualche timore (ma non credo che questo possa avvenire quando la classe è formata da decine e decine di persone, da un numero che garantisce l'anonimato), o non incidono davvero nel miglioramento dell'insegnamento, perché nessuno redarguisce o punisce i cattivi professori.
Con il passare del tempo, ho capito che i professori migliori sono molto interessati alla valutazione espressa dai loro studenti, e certe volte comunicano in classe con soddisfazione che hanno preso buoni voti; i peggiori, non so. Ho anche l'impressione che queste valutazioni o sono un poco accomodate da parte degli studenti, per un qualche timore (ma non credo che questo possa avvenire quando la classe è formata da decine e decine di persone, da un numero che garantisce l'anonimato), o non incidono davvero nel miglioramento dell'insegnamento, perché nessuno redarguisce o punisce i cattivi professori.
L'omertà fra insegnanti è una
categoria dello spirito internazionale, non se se
planetaria.
Comunque sia, la valutazione dei professori da parte degli studenti è una misura di civiltà e potenzialmente di trasparenza, anche se non sufficiente a garantire l'efficienza dell'insegnamento.
Comunque sia, la valutazione dei professori da parte degli studenti è una misura di civiltà e potenzialmente di trasparenza, anche se non sufficiente a garantire l'efficienza dell'insegnamento.
Una seconda
questione riguarda, sempre in Italia e in Spagna, le politiche
scolastiche delle destre e il silenzio e l'insufficienza delle
sinistre
Con le prove del tipo Pisa 2006 o
Invalsi, che ritengo comunque utili, si finisce con il valutare i
risultati nei territori e nei singoli istituti scolastici, vale a
dire di aggregati ampi. Sul tema della valutazione dell'efficacia
della formazione non mi pare, purtroppo, che ci siano sostanziali
differenze fra destre (parlo delle destre “normali”, che hanno un
minimo di sensibilità istituzionale, non dell'indegna gestione
Gelmini, su cui bisognerebbe aggiungere molte sconsolate
considerazioni) e sinistre.
In Spagna, la sinistra si batte per una scuola e un'università pubbliche inclusive, contro le restrizioni messi in atto dal governo di Rajoy, che sta dando tagli a destra e a manca. Però, se non si ragiona sulla valutazione, sugli scopi, sulla natura della formazione, ogni discorso sull'inclusività è perdente: dobbiamo accettare le disfunzioni e le enormi contraddizioni e gli sprechi e il dolce far niente, per essere inclusivi? Questa è la provocazione – non del tutto infondata - che fa vincere la destra.
In Spagna, la sinistra si batte per una scuola e un'università pubbliche inclusive, contro le restrizioni messi in atto dal governo di Rajoy, che sta dando tagli a destra e a manca. Però, se non si ragiona sulla valutazione, sugli scopi, sulla natura della formazione, ogni discorso sull'inclusività è perdente: dobbiamo accettare le disfunzioni e le enormi contraddizioni e gli sprechi e il dolce far niente, per essere inclusivi? Questa è la provocazione – non del tutto infondata - che fa vincere la destra.
Su quest'onda, è ovvio e naturale che
si finisca con il valorizzare/premiare solo istituti scolastici e
universitari, in base a una quantificazione lineare degli esiti. Se i
criteri di valutazione sono solo quelli di Pisa e dei test Invalsi,
per forza si finisce così. E il decreto legge che sta passando
fra la disattenzione di tutti, anche di tutti quelli che negli anni
hanno gridato, a proposito e qualche volta a sproposito, contro la
privatizzazione dell'istruzione è, in Italia,
l'estrema conseguenza di questa logica: ne parla, con ragione, la
CGIL (FAI CLIC SU QUESTO LINK),
però, mi pare, sia una voce che drammaticamente grida proprio in un
deserto vuoto o popolato da sordi.Questo decreto, che sconvolgerà l'ordinamento attuale della scuola, dopo che sarà approvato dal Senato, SENZA PASSARE PER IL PARLAMENTO, diventerà norma.
L'autonomia è spinta al massimo in una logica pienamente aziendale; inoltre di fatto, al di là degli stessi stati giuridici, conferisce poteri supremi ai capi di istituto. Ciascuna scuola potrà organizzarsi come crederà, allo Stato non interessa il percorso, ma solo i risultati in termini matematici, quantitativi: proprio come qualsiasi azienda, che può organizzarsi come i suoi gestori ritengono meglio nell'intento di massimizzare i profitti.
L'autonomia è spinta al massimo in una logica pienamente aziendale; inoltre di fatto, al di là degli stessi stati giuridici, conferisce poteri supremi ai capi di istituto. Ciascuna scuola potrà organizzarsi come crederà, allo Stato non interessa il percorso, ma solo i risultati in termini matematici, quantitativi: proprio come qualsiasi azienda, che può organizzarsi come i suoi gestori ritengono meglio nell'intento di massimizzare i profitti.
In Spagna non si è arrivati ancora a
tanto, perché – ne sono convinta – gli anni di governo dei
socialisti (e mi riferisco anche a quelli che hanno preceduto i
governi di Aznar) hanno costruito uno strato di diritti che è
difficile abbattere di colpo: l'Italia resta sempre, in questi anni,
all'avanguardia del cattivo esempio, anche su questo terreno.
Non si esce però da questa logica
invocando maggiore “umanità”, atteggiamento inclusivo,
attenzione al recupero dei deboli: tutto questo è considerato
“poesia inutile”, anzi dannosa, non solo dalle destre al potere
(e a volte dai governi di qualsiasi colore), ma pure dalla famosa
“gente”, da quei tanti genitori e studenti che hanno da muovere
mille rimproveri alla scuola, che l'hanno attraversata con
indifferenza o con sofferenza o con ambizione qualche volta permeata
di egoismi.
La sinistra troppe volte non tiene conto del fatto che la scuola o è nel cuore della società oppure, pur se relativamente (ancora!) decisiva per i destini individuali, si trova ai margini del mondo culturale, sentimentale dell'insieme dei cittadini. Infine è questo il crinale al di qua del quale si va inevitabilmente alla scuola-azienda, che elimina o castiga e deprime gli alunni in partenza meno competitivi; al di là del quale ci dovrebbe essere una scuola di tutti che sia il più possibile inclusiva, ma al tempo garantire il più possibile l'efficienza.
E in cosa può consistere l'efficienza della scuola (includo nella domanda anche i corsi universitari, sebbene in proporzioni e con caratteristiche un poco diverse)?
Quali possono
essere i lineamenti essenziali di una politica di sinistra per la
scuola e l'università?
Ci sono, a mio parere, alcune
idee-guida su cui dovrebbe misurarsi una politica che sia di sinistra
e voglia alcontempo una scuola efficace: non si tratta di meri
principi astratti, ma di tracce di percorso che vengono anche
dall'esperienza e dalla riflessione di tanti insegnanti:
1. L'efficacia della scuola, persino
sino ai massimi gradi, si fonda ancora principalmente sulle capacità
individuali, sulla passione, sulle conoscenze del singolo insegnante.
Anche in questo senso la scuola non è un'azienda. In un'azienda, il
lavoratore che si trova in radicale dissenso con il suo capo, in
genere danneggia la produzione (anche se, in molti casi, lo fa per
difendere i diritti suoi e dei suoi compagni). In una scuola,
l'insegnante che si trova in dissenso con il dirigente, a volte è
portatore di una proposta e di un percorso più alti e promettenti.
Non è giusto né utile che l'insegnante bravissimo sia penalizzato e
avvilito in una scuola che risulta agli ultimi posti della
classifica, mentre uno sfaticato e mediocre goda del privilegio di
trovarsi in una scuola che si classifica ai primi posti, magari
perché, per la sua localizzazione, raccoglie alunni di famiglie
benestanti.
Sono convinta che debba avere un nuovo risalto, debba essere ricostruita la figura del professore-maestro- mentore, che le tendenze attuali distruggono. Paternalismo? Certo. È ovvio che tra un ragazzo e un adulto ci sia una distanza generazionale. Almeno sono chiare le rispettive posizioni, e solo in questa chiarezza può nascere un confronto critico vero, senza censure.
Sono convinta che debba avere un nuovo risalto, debba essere ricostruita la figura del professore-maestro- mentore, che le tendenze attuali distruggono. Paternalismo? Certo. È ovvio che tra un ragazzo e un adulto ci sia una distanza generazionale. Almeno sono chiare le rispettive posizioni, e solo in questa chiarezza può nascere un confronto critico vero, senza censure.
Dovrebbe essere perciò valorizzata e
spronata la capacità dei singoli insegnanti: si potrebbero pensare
percorsi di valutazione in relazione a quel che hanno fatto negli
anni e che possono documentare (anche i compiti corretti dovrebbero
valere, certo!), a loro conoscenze specifiche, alle valutazioni che
del loro insegnamento danno gli studenti, a verifiche di uscita dei
livelli degli stessi studenti, ecc.: si tratterebbe di un processo
valutativo complesso, ma trasparente, come complesso è
l'insegnamento. Con commissioni esterne e possibilità di fare un
concorso volontario in carriera ogni 8-10 anni (nessuno stato
potrebbe sostenere le spese di concorsi continui per tutti). In
questo modo gli insegnanti migliori - sta di fatto nelle loro mani la
vera formazione dei ragazzi, e non in marchingegni organizzativi -
non sarebbero completamente legati - umiliati o nascosti- al livello
della scuola in cui si trovano. Evviva, quindi, la competizione nella
scuola: ma non fra scuole o almeno non principalmente fra scuole, ma
all'interno di ogni singola scuola.
I concorsi non garantiscono risultati
pienamente oggettivi? Certo che no. Ma le valutazioni che gli
insegnanti danno dei propri studenti sono pienamente oggettive? Non
si può misurare come nell'industria, lo ripeto.
2. Non sono in conflitto la qualità
della scuola e l'estensione della popolazione scolastica, e questo
soprattutto negli anni propriamente scolastici, ma anche, in parte,
nei corsi universitari. L'insegnante che nella scuola non progetta
una proposta capace di promuovere la crescita dei cosiddetti
“svantaggiati” per lo più neppure è capace di potenziare le
capacità dei ragazzi “dotati” in partenza di strumenti più
solidi. Quest'insegnante ripone infatti il proprio compito nel dare
degli input, nell'esprimere richieste, e nell'affidare buona parte
della risposta all'esterno, spesso, come avveniva già settant'anni
fa, al contesto socio-culturale in cui il ragazzo vive. Le tante
lamentazioni sulle famiglie che gli insegnanti ripetono da decenni
(in Italia come in Spagna) derivano, almeno in gran parte, dal fatto
che non pensano la scuola come mondo dotato di una propria autonomia
e di un proprio prestigio forte, capace, come era negli intendimenti
di alcune riforme italiane fondamentali del passato, di incidere
positivamente sui destini individuale.
3. Va superato il dualismo a mio parere
tragico che si è instaurato da alcuni anni nella mente di tanti: fra
capacità pedagogiche e preparazione culturale. In realtà
l'insegnante è un buon pedagogo se conosce davvero quel che insegna
e ha ambizioni intellettuali; ed è un bravo insegnante se è capace
di appassionare, di muovere la curiosità, l'interesse etc.. Se
lavora davvero per i suoi alunni o studenti. Se progetta percorsi non
ovvi, non banali. È più difficile insegnare banalità che cose
complesse: anche
ai ragazzi cosiddetti svantaggiati.
4. Si valutino anche le scuole, ma non
per farne aziende che competano fra loro. Se mai, per promuovere la
risoluzione dei problemi, puntando anche sui professori migliori. Che
le scuole diventino anche luoghi di ricerca. Si combattano gli
sprechi, ma cominciando a valutare non dai ragazzi, ma dalla
dirigenza, dal culmine della piramide, da chi ha più responsabilità.
In
conclusione
Temo che se queste proposte venissero
avanzate da qualcuno – un partito, un governo – di
centro-sinistra o di sinistra, tutti se ne accorgerebbero e
chiederebbero la crocifissione di colui che vuole accendere la
competizione nella scuola, come se si trattasse di un'azienda.
Ricordo quante ne dissero a Luigi Berlinguer, che voleva indire –
sicuramente attraverso una proposta un po' troppo povera e
unilaterale, affrettata, che però si sarebbe potuta emendare – un
concorso in carriera per gli insegnanti, per premiare quelli che più
sapevano.
Su questo terreno, ho grande paura che
la destra sia egemone e la sinistra abbia poche idee e poca audacia.
Lo so che si è in fase difensiva. L'articolo di oggi sull'Unità ce lo dice chiaramente, come meglio non si potrebbe. Ma senza una politica sulla scuola propria, non meramente quantitativa, si può uscire dalle quantificazioni della destra tecnocratica?
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