"...subito comprai due cavalli, di cui uno d'Andalusia della razza dei certosini di Xerez, stupendo animale, castagno d'oro; l'altro un hacha cordovese, più piccolo, ma eccellente, e spiritosissimo."

(Vittorio Alfieri, La Vita scritta da esso - 1790, 1803)

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Naturalmente nessuna analogia fra me e Vittorio Alfieri. Riporto le sue parole perché mi sarebbe piaciuto vivere in Andalusia quando ci venne lui.

sabato 19 giugno 2010

ARABISTI E ARABESCHI 9 - LA POESIA NELL'ETÀ DI MAOMETTO E DEGLI OMAYYADI 2 – Un poeta che meritò il manto di Maometto e un poeta maledetto.

Come rileva Francesco Gabrieli, la poesia di quest'epoca (vedi precedente post), pur se era cambiato il contesto, evocava spesso i motivi di quella beduina, del deserto. Come forma metrica, venne riproposta spesso la tradizionale casida.



KAAB IBN ZUHAIR

Come ho accennato in uno dei miei precedenti post, Maometto non amava molto poeti e cantori, anzi aveva previsto l'inferno per alcuni di loro. Ma non fu sempre intransigente, in questa condanna.
Kaab ibn Zuhair, poeta, figlio di un poeta vissuto nell'epoca della jiahiliyyah (per recuperare informazioni su quest'epoca, sulla forma metrica della casida ecc., clicca qui) , tardò a convertirsi all'Islam, e per un certo tempo, come dice Jaime Sánchez Ratia, “si dedicó... a vilipendiare il Profeta […]. Per questo motivo, Kaab ibn Zuhair fu inserito nella lista nera dei seguaci di Maometto, e dovette nascondersi impaurito, pensando alle conseguenze delle sue aspre critiche all'inviato di Dio, a cui giunse a dedicare un paio di satire.

Poi però, una decina d'anni dopo l'Egira, per conversione sincera o perché costretto dalla marea montante dell'Islam, il poeta si pentì e nella moschea di Medina ottenne che il Profeta lo ascoltasse recitare la casida che aveva composto. Si tratta di un poemetto di 58 versi, che comprende tre parti: la prima (nasib, introduzione), parla dell'addio alla bella Su'ad: nella seconda “il poeta si addentra nello sviluppo o viaggio (rahil), nel quale ... descrive il veicolo che lo trasporta, una splendida superba cammella”; nella terza, è tematizzato il pentimento per i propri atteggiamenti precedenti e “si sviluppa un madith o elogio del Profeta...”.
Secondo la leggenda, Maometto restò assai colpito dai versi di Kaab ibn Zuhair, tanto colpito che si tolse il mantello e glielo gettò sulle spalle. Questo mantello, in arabo burda, sarebbe passato per mani diverse, per finire a Istambul: e oggi è conservato nel museo Topkapi. In realtà è tutt'altro che sicuro che si tratti proprio del mantello che Maometto avrebbe dato a Kaab ibn Zuhair e la stessa storia è, naturalmente, tutt'altro che sicura.
D'altra parte, come ben sappiamo, anche nel mondo cristiano non mancano stoffe e indumenti legati dalla tradizione leggendaria a eventi di particolare rilievo e sacralità.

I versi che seguono sono tratti dalla prima parte della casida, il nasib o introduzione. Il
contesto cui fa riferimento il poeta è ancora quello dei beduini: la tribù cui appartiene la ragazza ha cambiato zona, e Kaab ibn Zuhair lamenta la partenza della donna desiderata, pur volubile e infedele perché così è la sua natura, è fatta così.

Su'ad se n'è andata

Su'ad se n'è andata e il mio cuore è consumato
ammaliato dalle sue tracce, non liberato, incatenato.
E lei, la mattina della separazione, quando partirono
non era più che un'antilope, lo sguardo schivo, scurito dal kajal (1).
Veloce nell'avvicinarsi, di fianchi ampi nel volgersi,
non le si può rimproverare di essere bassa o alta.
Mostra denti candidi splendenti come la neve se sorride
si direbbe che siano stati inumiditi con il vino più volte,
vino rinfrescato in acqua gelata, in un puro meandro (2)
del letto di un torrente, a mezzogiorno, esposto poi al soffio del libeccio,
filtrato dall'aria, che porta via le sue impurità,
immerso quindi in una pioggia caduta
da nubi notturne, provenienti dalle bianche montagne.
Povera Sa'ud! Se fosse restata fedele ai suoi amici,
a quelli a cui promise, o se avesse accettato il consiglio!
Purtroppo è un'amica con un sangue groviglio di afflizioni,
falsità, giuramenti infranti, e sostituzioni di amici.
Lai non resta quella che è, perché cambia come il gul (3),
il colore del suo aspetto, né persevera
nella promessa che ha fatto: è come il setaccio,
non c'è verso che trattenga l'acqua.
[...]

1- L'alcohofol o alchol [in Italia più conosciuto come kajal] è una polvere di antimonio che già nell'antico Egitto si usava per fare risaltare gli occhi e proteggerli dal forte riverbero del sole sulla sabbia del deserto.
2- Il vino... si beveva mescolato con acqua, se possibile ben fredda. Poiché a quel tempo non si conoscevano i frigoriferi e non si aveva modo di conservare il ghiaccio, si ricorreva alle maniere più ingegnose per ottenere acqua fredda. Una di queste era darsi la sveglia prestissimo e andare ad attingere l'acqua di un ruscello alle quattro della mattina.
3- Il gul è una specie di demonio del deserto, un mostro che assalta i passeggeri e li divora, certo, incominciando sempre per i piedi.

AL AJTAL

Al Ajta, soprannome di Giyaz ibn Gauz ibn As Salt, aveva il significato di “loquace”. Figlio di una cristiana e cristiano pure lui, condusse una vita dissipata, amò il vino e le donne. Il Kitab Al Agani, immensa raccolta di poesie e di notizie sui singoli poeti, compilata da uno studioso medievale di origine persiana, racconta che Al Ajtal “già divorziato, si sposò con la moglie di un beduino, che aveva a sua volta divorziato da lei. In una certa occasione in cui Al Ajtal se ne stava solo con la sua nuova sposa, quest'ultima ricordò il suo precedente marito e sospirò dolorosamente. Al Ajtal rispose così in versi:


Entrambi abbiamo trascorso la notte in affanno,
come se, al contatto con il letto,
avessimo i lati del corpo pieni di piaghe.
Lei piange sconsolata per il suo precedente sposo,
e io nella nostalgia dell'altra sposa mi lamento senza requie.

Al Ajtal fa parte di una triade di poeti considerati dalla tradizione araba come i maggiori del tempo, e ciò può parerci strano, visto che questa specie di precursore di Cecco Angiolieri irride ai valori morali e religiosi dominanti nella sua epoca. Ma noi che veniamo da cultura cristiana cattolica sappiamo bene che strano non è: l'“arte”, per noi come forse anche per una parte dell'Islam, è, fra le altre cose, una specie di serbatoio del proibito, e legittima ciò che nella vita quotidiana è, almeno formalmente, censurato.

Riporto di seguito la sua poesia in cui tematizza la vita e la morte da “maledetto”:

Morte pagana

Bevemmo e morimmo di morte pagana,
quella delle genti che attraversarono il mondo senza conoscere Maometto,
tre giorni interi, e quando stavamo per dare
gli ultimi respiri, rivivemmo gli eventi passati.
Rivivemmo una vita che non apre strada alla resurrezione,
dalla quale non ti chiamano per il Giudizio Finale.
Una vita da infermi, e intorno a noi
dopo che ci eravamo svegliati dall'ubriacatura fra varie genti,
ci trovavamo circondati da censori
e da curiosi che andavano e venivano.
E noi dicevamo al nostro coppiere: Su, un altro giro,
dedichiamoci al vino come ieri,
certo, ripetere è atto meritevole di lode.
Trasse il vino, e fu come se nei bicchieri pieni
risplendesse e spumeggiasse lo stesso pianeta Marte (1).
Un vino che si faceva di cristallo nell'acqua
- quando la coppa girava di mano in mano -
di tal profumo che pareva elisir divino e santo:
ti uccide e ti resuscita dopo che sei morto,
e se la sua morte è deliziosa,
la vita a cui ritorni è ancor migliore e degna di lode.

1- A quel tempo si credeva che Marte fosse in fiamme, e perciò rosso come il vino.

Tutte le citazioni, le poesie e le note ai testi di questo post sono tratte dal bel libro Treinta poemas árabes en su contexto, Selección, presentación, traducción y notas de Jaime Sánchez Ratia, Hiperión Madrid 2006. Ringrazio a tal proposito l'editore che mi ha dato il permesso di attingere, se pur con moderazione, ai bei libri da lui pubblicati.

per il precedente post su quest'epoca della poesia araba, clicca qui.

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