"...subito comprai due cavalli, di cui uno d'Andalusia della razza dei certosini di Xerez, stupendo animale, castagno d'oro; l'altro un hacha cordovese, più piccolo, ma eccellente, e spiritosissimo."

(Vittorio Alfieri, La Vita scritta da esso - 1790, 1803)

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Naturalmente nessuna analogia fra me e Vittorio Alfieri. Riporto le sue parole perché mi sarebbe piaciuto vivere in Andalusia quando ci venne lui.

lunedì 24 maggio 2010

COSE DI SPAGNA E D'ITALIA - “ZINGARI” 3: LA LEGGENDA DELL’INVASIONE E I DESTINI INDIVIDUALI – MILANO E DINTORNI

Non posso, ovviamente, nel breve spazio di qualche articolo, dar conto della grande ricchezza di dati, storie, comparazioni, riflessioni, norme assurde, leggende crudeli, che riporta la studiosa nel suo libro avvincente, strumento utilissimo a comprendere i nostri “palestinesi”, i poveri e perseguitati che vivono fra noi, e ancor più a interrogarci sullo sguardo con cui li osserviamo.
In quest’ultimo mio scritto sul libro della Calabrò mi limiterò a proporre la lettura di due ampi passi particolarmente significativi.

Leggiamo dunque quel che dice Anna Rita Calabrò a proposito del numero degli “zingari” presenti a Milano e della presunta invasione che sarebbe avvenuta negli ultimi anni:

Quando si era svolta la precedente ricerca, nel triennio 1987-90, erano state censite, in 18 dei 24 campi esistenti nel Comune di Milano, 1224 persone di cui 24 gagé (in qualità mogli o mariti). Se consideriamo che il censimento si era svolto nei campi più grandi e più stabili e che, tra i 24, non erano stati considerati solo alcuni piccoli insediamenti abusivi ed occasionali, abitati prevalentemente da Rom Kanjarjia, possiamo avere un'idea di quella che poteva essere allora la popolazione complessiva che, ragionevolmente, si poteva aggirare intorno alle 2000/2500 unità.
I numeri parlano chiaro: 2000/2500 alla fine degli anni '80, 5010 oggi,
dopo diciassette anni. Non si può certo parlare di invasione. Se ai 5010
zingari censiti, togliamo coloro che allora non erano presenti — i Kossovari
e i Macedoni, che sarebbero arrivati di lì a poco scappando dalla guerra e
i Rom rumeni che sarebbero cominciati ad arrivare dal 2000, quando si
prefigurò l'entrata della Romania nell'Unione Europea — rimangono 2030
persone che corrispondono grosso modo a quelle presenti venti anni fa: 1235
persone censite su un totale stimato di 2000/2500 unità.
Un datò, questo, che a me sembra clamoroso perché ci parla di una comunità stabile da almeno vent'anni. Vent'anni durante i quali non si è fatto nulla per facilitare l'integrazione di un numero così modesto di per­sone, la maggior parte cittadini italiani e quasi la metà bambmi. Non si è fatto nulla, o meglio, si è creata un'emergenza che si è rivelata tale quando sono arrivati dei profughi di guerra (i Kossovari e i Macedoni), molto spesso non riconosciuti come tali e i Rom rumeni, come era facile prevedere dopo l'entrata della Romania nell'Unione Europea.

E ora, per chiudere, qualcuna delle molte storie individuali raccolte sempre a Milano o nelle immediate vicinanze.

C'è Phabe F. che ha frequentato e concluso un corso professionale per parrucchiera e che adesso è disoccupata.
C'è Hasimfa O., suo marito è in carcere ma lei lavora come mediatrice culturale e interprete per il Tribunale e la polizia e le sue due bambine fre­quentano regolarmente le scuole. Abita a Triboniano e la notte ha paura.
C'è Berisa B. che ha frequentato un corso per mediatrice culturale, lavora con i detenuti al Carcere di Bollate e vorrebbe andare a vivere in una casa.
C'è Ago B. che abita in via Monte Bisbino e che tutte le mattine, con sua moglie, fa il giro delle discariche con il suo camioncino in cerca di materiali da riciclare: aspetta da tempo il rilascio dei documenti per aprire una propria ditta individuale.
C'è Fruska Z. che dieci anni fa, durante la sua permanenza al carcere minorile, ha coraggiosamente scelto di allontanarsi dalla famiglia, che è stata in comunità, che non ha più commesso alcun reato, che si è sposata ed ha avuto una bambina, che paga un affitto assurdo per una casa piena di scarafaggi, che riceve un salario che è la metà di quello che le sarebbe dovuto, che non ha potuto riconoscere la figlia perché ancora non è rego­larizzata, che sono dieci anni che aspetta.
C'è Jovic J. che è bosniaco mentre sua moglie è serba. Sono scappati durante la guerra e i loro figli sono nati in Italia: sono tutti clandestini. Suona alle feste, ai matrimoni e nei locali di Brera e la sera quando torna a casa ha sempre paura che lo fermino per un controllo dei documenti.
C'è Erika M. che ha il marito in carcere e si è inventata una attività di sartoria artigianale ma teme che il Comune di Rho chiuda il campo in cui abita con i propri bambini perché non saprebbe dove andare.
C'è Jagodha T. che ha sedici anni, sua madre entra e esce di prigione e questa volta ci resterà a lungo e da quando aveva otto anni pensa lei ai suoi quattro fratellini. Guadagna qualche soldo facendo le pulizie nel quartiere e piccoli lavori di sartoria al campo. Ogni giorno scrive a sua madre. Il suo rimpianto e di non aver potuto continuare la scuola e il suo sogno è un lavoro sicuro e una casa. Un poliziotto, recentemente intervistato alla televisione, ha detto con disprezzo che i bambini zingari sono bambini solo anagraficamente.
Sono solo alcuni esempi di quanti, prima di essere Rom, sono persone
che meritano rispetto e aiuto. Hanno un nome e un cognome, sentimenti
e parole. Forse sono pochi rispetto a coloro che vivono nella zona d'ombra della cultura deviante ma ci sono.
Ed è da loro che bisogna cominciare per risolvere l'emergenza zingari.

(fine - Per collegarti al precedente articolo della serie clicca su "Zingari" 2: l'identità imposta

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