"...subito comprai due cavalli, di cui uno d'Andalusia della razza dei certosini di Xerez, stupendo animale, castagno d'oro; l'altro un hacha cordovese, più piccolo, ma eccellente, e spiritosissimo."

(Vittorio Alfieri, La Vita scritta da esso - 1790, 1803)

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Naturalmente nessuna analogia fra me e Vittorio Alfieri. Riporto le sue parole perché mi sarebbe piaciuto vivere in Andalusia quando ci venne lui.

venerdì 14 maggio 2010

COSE DI SPAGNA E D'ITALIA- “ZINGARI” 1: IDENTITÀ E AMBIVALENZA

Ripubblico, con qualche modifica, tre miei articoli sulle popolazioni Sinti e Rom d'Italia. Si tratta di altri miei scritti che sono comparsi sul blog successivamente chiuso di una casa editrice romana. Li recupero perché ritengo che potrebbero essere ancora utili. Mi riprometto al mio ritorno in Andalusia di continuare questo discorso con resoconti aggiornati sulla realtà e l'esperienza spagnola.
Rinvio al mio ritorno in Spagna anche la prosecuzione del percorso sulla poesia araba, ripartendo dall'epoca del Profeta e degli Omáyyadi.

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Un bellissimo libro di due anni fa è Zingari- Storia di una emergenza annunciata, di Anna Rita Calabrò, sociologa dell’Università di Pavia, edizioni Liguori 2008. Mi chiedo: l'ex presidente della Provincia di Milano, Filippo Penati, poi candidato governatore della Lombardia sconfitto nelle ultime elezioni regionali, non avrebbe potuto avvalersi del contributo di questa studiosa per impostare una politica più informata, meno barbara e grossolana, finalizzata all'integrazione inevitabilmente complessa di questi cittadini europei? Il suo appiattirsi su posizioni lontane da una cultura di sinistra e di umanità gli ha alienato potenziali elettori pur non estremisti e non gli ha guadagnato voti di xenofobi e razzisti che hanno il nido naturale nella destra peggiore. Credo che la crisi della sinistra italiana sia anche in questo divorzio fra mondo intellettuale (intellettuale nel senso migliore, in un'accezione non tanto di rango e di ruolo sociale, ma di conoscenza reale e di passione conoscitiva) e attività politica: anche in questo la politica, purtroppo spesso anche quella di sinistra, ostenta una presuntuosa autonomia e si distacca dalla società. La stessa Calabrò accenna nel suo libro alle posizioni dell'ex-presidente della provincia di Milano e riporterò le sue osservazioni nei prossimi articoli.


In questo mio primo scritto sul libro della Calabrò, condurrò una riflessione abbastanza libera, legando alla mia personale esperienza molte considerazioni della studiosa. Forse questo primo ragionamento potrà apparire un po' astratto, lontano da quei dati “concreti” che in genere colpiscono di più, e saranno presenti solo nei due successivi. Però mi pare giusto proporlo, in quanto parla di questioni fondamentali relative alla nostra e all'altrui sensibilità e al rapporto fra persone. È battente, in Italia, ma anche in Andalusia, il riferimento a “radici”, “identità”, “culture”: tre parole strettamente legate alla globalizzazione, quella “cattiva” e quella “buona”, e su cui vale la pena di riflettere.

La Calabrò, nella parte iniziale del libro, ragionando di identità, diversità, incontri, scontri, analizzando criticamente le tesi di studiosi che si sono occupati delle popolazioni zingare, rivendica l’uso di una categoria interpretativa – l’ambivalenza - assai fruttuosa. Qualcosa che non conduce né all’assimilazione forzata, né all’esclusione, né al relativismo culturale, concetto, quest'ultimo, che personalmente detesto come profondamente ipocrita, fucina e maschera a volte inconsapevole di nuovi razzismi. L’autrice mostra, nel prosieguo della trattazione, come la categoria dell’ambivalenza continui a inzupparsi nel fiume dell’esperienza, nelle relazioni fra individui e gruppi umani e specificamente nelle relazioni fra i molteplici gruppi che chiamiamo zingari e i non-zingari o gagé. Ma in tempi di barbara semplificazione – questa è una mia riflessione - il concetto di ambivalenza non gode di buona fama: scivola infatti nella mente di molti verso ambiguità, che a sua volta slitta verso imbroglio, inganno, trappola. Quindi ambivalenza, e ancor più ambiguità, nell’uso dominante, sono parole cariche di negatività. Più ci si sente disorientati e sbriciolati e furiosi, più si invoca una compattezza identitaria che non può esistere se non in una proiezione esterna di sé: nel coltello o nel bastone.
La Calabrò afferma: “ Una cultura che si basa sulla separazione, che si rinchiude in se stessa protetta da una sorta di armatura impenetrabile all’alterità, minaccia la stessa sopravvivenza di chi ne è portatore […]. Si è abituati a pensare l’identità come una struttura psichica stabile nella sua essenza. E come tale viene rappresentata: identità come consapevolezza della continuità – di un individuo, di un gruppo – nel fluire del tempo. Ma tale stabilità è artificiosa, costruita attraverso una serie continua di rinunce. E soprattutto è una stabilità precaria che richiede di essere presidiata e difesa e, nello stesso tempo, di essere messa in discussione[…]. Questo non vuol dire che l’identità culturale non sia fondamentale per mettere a punto la nostra mappa cognitiva, né che il processo attraverso cui tale identità si costituisce non abbia caratteri universali e sia costituito da atti irrinunciabili. Tutt’altro. Le scienze biologiche ci dicono che la dotazione genetica dell’uomo, al contrario di quanto accade nel mondo animale, non ne garantisce la sopravvivenza: l’intervento della cultura e dei modelli di identità sono la risposta compensativa a un’organizzazione istintuale sottosviluppata, la mappa che consente di orientare il nostro comportamento.

Dunque, l’assunzione di mappe identitarie non come bandiere gloriose, ma come rimedi necessari e al tempo stesso permanentemente provvisori a una condizione - specificamente umana - fragilissima, nella sua immensa raffinatezza e complessità. Sarebbe quindi auspicabile che si avesse consapevolezza del fatto che “decidere l'identità, decidere ciò che si è e ciò che non si è, a chi si è simili e da chi si è dissimili, implica due operazioni contrapposte ma strettamente connesse: la separazione, che gioca la carta del particolarismo e che costruisce l'identità sulla base di quelle caratteristiche che rendono il soggetto unico e irripetibile; l'assimilazione, che gioca la carta della generalità e riconosce appartenenze e somiglianze. Si tratta allora di decidere dove disegnarne i confini: cosa tagliare e come classificare, cosa assemblare e come costruire. […] . Ciò significa che l'identità è definita sempre in termini particolaristici e non universalistici [...]. C'è però una contraddizione evidente: se è vero che la particolarità rafforza l'identità, è altrettanto vero che la indebolisce sul piano dell'auto-rappresentazione. La rende relativa e perciò meno convincente. A fronte di ciò si opera un altro taglio, un'altra separazione: il gruppo separa la propria identità culturale dalla particolarità delle sue condizioni storiche, la 'purifica' da tutto ciò che ne rivela il carattere arbitrario e fittizio […]
Ma un'identità culturale che non ammette i limiti particolaristici delle proprie forme culturali offre, di fatto, coerenza e stabilità precarie e fittizie e conduce in un vicolo cieco.
Di qui l’uso virtuoso dell’ambivalenza, l’ambivalenza come oppurtunità.
Mi riferisco, - precisa la studiosa - quando parlo di configurazione ambivalente, a qualsiasi situazione si crea ogni qualvolta individui, gruppi o classi, istituzioni o organizzazioni, subiscono l'influenza di due diverse istanze che possono avere a che fare con le credenze, le motivazioni individuali, gli statuti normativi, i modelli di conoscenza, le forme culturali […].. Esse sono in relazione tale da essere contrapposte, irriducibili l'una l'altra, ineliminabili a vicenda perché interdipendenti, non possono essere risolte in una sintesi e creano un campo di tensione all'interno del quale agisce l'attore sociale per il quale entrambi i comandi hanno la stessa forza coercitiva. Una metafora utile a chiarire tale concetto è quella del movimento del pendolo…
Non si può dunque sciogliere una volta per tutte l’ambivalenza fra particolarismo e universalismo, difesa dell’identità personale e di gruppo e apertura all’altro/agli altri. Si tratta di un equilibrio delicatissimo, che si è obbligati a rifondare continuamente nel fluire della vita e dei rapporti. Quindi, nel definire se stessi e, nel caso specifico, gli altri, la scelta consapevole dell’et…et…, con le tensioni e i disorientamenti che comporta, al posto dell’aut… aut spesso feroce, proprio di un certo senso comune imbarbarito oggi come non mai.

La Calabrò applica, non certo con procedimento puramente deduttivo, queste categorie alle relazioni fra le popolazioni zingare e i gagé. La maggioranza gagé, che è quella che ha maggior potere nella definizione dei rapporti, proietta spesso sulla minoranza questo bisogno di semplificazione al tempo stesso illusoriamente rassicurante e realmente feroce: gli zingari sono quindi, nella visione che ne ha la maggioranza dei gagé, o romantici “figli del vento”, o popolo compatto nel suo degrado e nella sua ostilità barbara e incomprensibile nei confronti della maggioranza gagé. Entrambe le etichette, dice la Calabrò, sono false: l’insieme di gruppi assai differenziati fra loro cui diamo il nome di “zingari” sono pienamente immersi nel flusso del mutamento, dei diversi volti che la modernità ha presentato e continua a presentare nel tempo. Le etichette che si appioppano agli altri sono funzionali a rigide e in apparenza rassicuranti definizioni identitarie di chi ha il potere di appiopparle, e lo stereotipo e il pregiudizio attivano reciprocità e poi di reciprocità irrigidite si alimentano: se definisco l’altro in modo stereotipato e ottuso, è molto facile che io stesso diventi oggetto di definizioni speculari altrettanto rigide e false.
Ma vedremo la prossima volta come questo ragionamento offra un modello interpretativo quanto mai efficace delle concrete relazioni fra maggioranza gagé e minoranze zingare nel nostro paese, mentre la negazione spesso violenta dell’ambivalenza genera, come possiamo constatare quotidianamente, conseguenze devastanti per tutti.

(1- continua)

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